venerdì 26 giugno 2020

Quanti "no" servono per dire davvero "no"?



In questi giorni ho letto su Twitter una serie infinita di confessioni dolorose e strazianti, confessioni di violenze subite da donne, ragazze, bambine, da parte di uomini, ragazzi, bambini. Come se questo virus della violenza maschile si prendesse molto presto e si rafforzasse nel tempo, accompagnando ogni fase della vita. I bambini che alle elementari ci alzavano le gonne per toccarci e ridacchiare saranno gli adolescenti che giocano a "la bombi o la passi", diventeranno i ragazzi che ci portano a fare un giro in macchina in una campagna isolata e sembrano non sentire i nostri "no", gli uomini che ci offrono la cena e poi si aspettano "una ricompensa" e cambiano improvvisamente atteggiamento quando capiscono che non l'avranno.

Quando è iniziato tutto questo? Per quanto tempo è andato avanti ed è stato considerato "normale"? Perché ora che sappiamo che non lo è, queste cose continuano ad accadere, e non riusciamo ad impedirlo? Perché molti uomini si sentono minacciati dal femminismo e dalla possibilità di perdere la loro posizione di "superiorità", quando questa superiorità equivale a un sopruso? Perché molte donne fanno fatica a dire "no" e sono schiave del dovere di compiacere?

Lo so, sono tante domande. E rispondere a ognuna di queste richiederebbe molta più conoscenza e molto più spazio di quelli di cui io dispongo adesso. Ma soprattutto, mentre leggevo queste testimonianze, questa volontà di esporsi, anche con dettagli che avrebbero potuto sollevare interesse morboso in chi leggeva, e che sicuramente riaprivano ferite in chi scriveva, mi chiedevo: "Raccontare tutte le nostre storie ed esperienze, è davvero utile?"

Credo di sì, innanzitutto perché ci fa sentire meno sole. Ci fa capire che quello che è successo a noi non è un caso isolato e sfortunato, ma il risultato di una mentalità e una cultura misogina e maschilista che pervade la nostra società, di cui dobbiamo prendere coscienza e che dobbiamo estirpare. Ogni nostra storia è una foglia di un albero centenario, le cui radici affondano nel terreno in profondità. Il vento della calunnia e della smentita può spezzare le nostre foglie. "Sei esagerata", "Te la sei cercata", "Sei stata ingenua", "Sei stata troppo provocante", "All'inizio lo volevi, sei stata ambigua", "Perché sei venuta qui, se non volevi farlo?".

Da sole, è più facile cadere nel tranello di chi sminuisce la nostra esperienza e i nostri sentimenti, magari per allontanare da sé accuse che, razionalmente, non sarebbe in grado di accettare, perché lui  non si riconosce nella figura dell' aggressore, dell'uomo che fa violenza.
Noi stesse siamo portate a sminuire certi fatti, perché non possiamo credere che siano successi a noi, non vogliamo accettare di aver lasciato che accadessero, non vogliamo sentirci vittime.
E allora ci ripetiamo le stesse bugie che ci dicono loro: "Forse sto esagerando", "Sono stata ingenua", "L'ho provocato", "Gli ho dato messaggi ambigui". Possiamo dare credito quanto vogliamo a queste voci che iniziano a rimbombarci in testa, ma intanto la nostra voce interiore sa perfettamente che quello che è successo è sbagliato e che non è colpa nostra. Così come a cinque anni sapevo che le parole che mi avevano detto quei ragazzini undicenni che giocavano al parco erano sbagliate, anche se non sapevo cosa significassero. Così come a quattordici anni sapevo che il tizio, estraneo, che mi ha bisbigliato alle spalle: "Ti starebbe benissimo addosso", mentre io guardavo un completo intimo in vetrina, stava sbagliando, mi stava facendo sentire a disagio, e non era colpa mia. La nostra voce interiore sa come stanno le cose. Se solo riuscissimo ad ascoltarla, invece di soffocarla con le interferenze del mondo.

Guardiamo più da vicino. Smontiamo più accuratamente queste false credenze che ci allontanano dalla realtà e quindi dalla guarigione. Per prima cosa, non tutto quello che noi donne facciamo è un atto di provocazione indirizzato ai maschi, e se viene inteso così, ci stanno ingiustamente sessualizzando. Non c'è provocazione nel camminare per strada, nel prendere un autobus o un treno, nello studiare in biblioteca, nel lavorare, magari in un ambiente prevalentemente maschile, e in tantissime altre attività quotidiane che vorremmo svolgere in tranquillità, indisturbate, senza la paura, l'ansia, la rassegnazione verso ciò che potrebbe succedere, verso ciò che alcuni uomini potrebbero dire o fare. In secondo luogo, quando, in altri contesti, effettivamente "provochiamo" non c'è niente di male nel farlo, come non c'è niente di male in qualsiasi azione che facciamo di nostra volontà, tra persone consenzienti, con le quali abbiamo un rapporto di confidenza e intimità. Questo non significa che stiamo acconsentendo a qualunque iniziativa prenderà chi ci sta di fronte. Nel momento in cui uno fa qualcosa o insiste per fare qualcosa che voi non volete fare, adducendo la scusa del "mi hai provocato", "prima volevi", "lo vuoi anche tu", "ti piacerà", "se sei venuta qui vuol dire che vuoi", sta usando la prevaricazione, sta assumendo cose e pretendendo cose che voi forse non avete mai voluto e sicuramente non volete in quel momento, se dite di no. Ma, esattamente, quanti "no" servono per dire davvero "no"? Perché mi viene spontaneo pensare a una situazione in cui io continuavo a dire "no", ne avrò detti almeno sei o sette, mentre la sua mano non si fermava, finché non sono stata zitta.

Ricordo un'altra volta, eravamo a letto, in pigiama, ci stavamo baciando. Poi abbiamo smesso e ci siamo addormentati. Durante la notte, nel dormiveglia, quando ancora non sai se stai sognando o sei sveglia, ho aperto gli occhi e ho visto che lui era nudo e si stava masturbando, e mi toccava.
Mi sono girata dall'altra parte, lui continuava a toccarmi e io, semi-cosciente, continuavo a spostare la sua mano. Non sarebbe dovuto bastare quello, perché si fermasse? Quale tipo di uomo può provare piacere a fare qualcosa quando l'altra persona non vuole o, addirittura, non è completamente cosciente? Quello che è successo dopo non mi sento di raccontarlo, ma è finito con me che scappavo e mi andavo a chiudere a chiave in bagno. Nel tragitto per tornare a casa, due ore di macchina, non ho detto una parola, e lui mi ha lasciato in stazione incazzato perché per tutto il tempo non avevo parlato, quando lui aveva fatto tutta quella strada per me. Un paio di giorni dopo, ho voluto parlare di ciò che era successo, e tutto ciò che ha detto è stato: "Senti, io non ho tempo per le tue paranoie. Se pensi che ti abbia violentata, denunciami".

Di nuovo ritorna questa pericolosa credenza: "Lo stupratore nel vicolo fa violenza, io non sono certo uno stupratore, sei tu la pazza se pensi questo".
Forse bisognerebbe allora capire cosa si intende con violenza e consenso, le tante forme che la violenza può assumere, le zone grigie che spesso nel dibattito culturale e nei tribunali portano a sminuire o addirittura negare il carattere coercitivo di molte azioni. "Può esserci violenza se prima uno dei due aveva acconsentito e poi ha cambiato idea? Può esserci violenza se uno dei due, poco lucido, aveva bevuto di sua spontanea volontà? Se uno dei due è in posizione di potere, il consenso di chi è in posizione subordinata può essere condizionato?". Nonostante le risposte a queste domande possano sembrare scontate, nella pratica spesso non lo sono. Per questo è importare tornare alle definizioni e dare informazioni corrette, perché laddove l'empatia del singolo non riesce ad arrivare, arrivi l'informazione.

Il Sexual Offences Act del 2003, nel Regno Unito, uno dei paesi che più ha fatto passi avanti sul tema del consenso, dà la seguente definizione: "Agli scopi della presente normativa, una persona consente se aderisce per scelta, e se dispone della libertà e della capacità per compiere tale scelta".
E se vogliamo chiarirci un po' di più le idee al riguardo, possiamo guardare questo video, dove il consenso viene spiegato per mezzo di una semplice tazza di tè.



(Il video c'è anche in italiano). 







Dal 2017, Movimenti come il #MeToo in America e l'hashtag equivalente #Quellavoltache in Italia hanno raccolto migliaia di testimonianze spontanee e acceso così i riflettori su storie che non devono più essere nascoste e negate. Nella nostra cultura c'è un problema, non possiamo più fingere di non vederlo, chiudere gli occhi, spegnere la luce.

Raccontare tutte le nostre storie ed esperienze è utile, ma non basta. Non basta la compassione così carica di amarezza che possiamo ricavarne, le nostre storie devono essere il punto di partenza che ci spinga a provocare un cambiamento. Prendere coscienza di un problema è il primo passo, non l'ultimo. Non credo che uscire da questa situazione sia compito solo di uno o dell'altro, credo sia necessario educare i maschi a non essere carnefici ed educare le femmine a non essere vittime. E non intendo con questo aderire alla viscida mentalità del blame the victim, incolpare la vittima.
La colpa è solo di chi fa del male, ma in un mondo tutt'altro che ideale credo sia necessario fornire alle donne strumenti per combattere proprio quelle forme più subdole e sottili di violenza, tutti quei casi in cui esse si sentono inconsciamente costrette ad assecondare.
Non si tratta di dire alle ragazze come vestirsi (è inutile, oltre che vergognoso), ma di dire alle ragazze che possono dire "no", che possono cambiare idea, che possono avere dei bisogni e soddisfarli senza subordinarli a quelli dei maschi, che non hanno il dovere di essere belle, secondo canoni decisi da altri, che non hanno il dovere di piacere a tutti.
E sono queste le stesse cose che dobbiamo dire ai ragazzi, perché non si sentano traditi, offesi, arrabbiati se una ragazza si rifiuta di fare sesso con loro, o cambia idea, o se vuole mettere fine a una relazione. Perché non si sentano in diritto di dire a una ragazza come deve vestirsi o truccarsi, quanto deve mangiare, cosa deve fare con il suo corpo. Si tratta di insegnare a tutti, maschi e femmine, il rispetto di diritti fondamentali di libertà, dignità e autodeterminazione, perché la nostra identità di genere sfumi a favore della nostra identità di esseri umani. Perché un giorno non serva più dire: "Rispettala, potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia", ma basti dire: "Rispettala, è un essere umano".