mercoledì 25 dicembre 2019

Natale a casa (parte 4)



- Allora...Cosa vuoi fare ai capelli? - chiedo a mia sorella quasi bisbigliando.

- Mh...Non so ero indecisa, volevo fare i boccoli ma forse è tardi…

- Lo sai che non sono molto brava in queste cose...Una treccia? Che ne dici? Una treccia speciale, tipo alla francese…

- Alla francese? - chiede lei con occhi vispi.

- Sì, e possiamo metterci anche...Aspetta....

Rovisto un po' nei miei vecchi cassetti del bagno, dove ho lasciato le spillette e i cerchietti di quando ero piccola, e mia madre mi conciava a festa per andare a scuola. Una cosa leziosa e disgustosa. Però forse sotto quella marmaglia di fiocchetti, perline e spille tira capelli c'è nascosto un piccolo tesoro del mio passato, che può tornarci comodo anche nel presente.

- Ecco! Possiamo metterci questi!

Ilaria strabuzza gli occhi e solleva la fronte, non mi sarei aspettata una reazione migliore.

- Dove li hai presi? Me li presti, me li presteresti per stasera?

Avevo comprato questi brillantini con Caterina, in un negozietto del centro che vendeva accessori per capelli, trucchi e bigiotteria. Sono come piccoli diamanti, naturalmente finti ma molto luccicanti, fissati su una molla minuscola che si attacca ai capelli. Non fanno male, non si sentono nemmeno, e sembra che una pioggia di cristalli ti sia caduta sulla chioma. Li adoravo. Io e Caterina li avevamo comprati uguali, due bustine per una, ed era proprio il periodo di Natale; li mettemmo a Capodanno e tutte le altre ragazzine ci guardarono rapite dall'invidia, piccole gazze ladre attratte da tutto ciò che luccica: oro, cristalli, o un'amicizia. Eravamo abituate, infatti, a quegli sguardi, a quei bisbigli e a quelle gomitate che le altre si davano quando entravamo in classe, quando ci isolavamo dal gruppo e parlavamo per ore una lingua solo nostra, ridendo a battute che loro non capivano. Ci odiarono quando arrivammo a scuola con lo stesso cellulare, quando il lunedì mattina scoprirono che il sabato pomeriggio eravamo andate in centro senza di loro, e, ovviamente, quando vennero a sapere che stavamo organizzando addirittura le vacanze al mare insieme. Con lei sono andata al mio primo concerto, ho scoperto gruppi alternativi che come le altre non avevo mai sentito nominare, e ho iniziato a uscire il sabato sera nei locali, anche se ci stancavamo presto tutte e due della solita gente che era sempre la stessa, e del fumo che ti si appiccicava sulle giacche, e della consumazione obbligatoria che finiva in una coca annacquata al rum perché non avevamo il coraggio di provare altro. Preferivamo stare a casa sua, i suoi non c'erano mai, e potevamo guardare film, ascoltare musica, ma soprattutto parlare per ore e fantasticare sul futuro. Progettavamo, naturalmente, la nostra fuga da tutto, dalla provincia esistenziale in cui eravamo confinate dall'età e, nel mio caso, anche dalla paura. Quella paura che ancora mi accompagna, mi sta col fiato sul collo e come uno stalker mi segue ovunque e non mi abbandona mai. Caterina infatti se n'è andata davvero: ha lasciato la città e quella vita di prima che, sapeva, aveva solo preso in prestito; io invece sono ancora qui, ancora ferma, e vorrei solo che lei fosse rimasta ferma con me, perché finché c'era lei mi andava bene anche tutto quello che odiavamo. A me non dispiace la provincia, ci vuole solo la giusta compagnia.
Le fughe in macchina sulla via Emilia o quelle in camera sua sulla musica dei Diaframma per me erano abbastanza, per me erano praticamente tutto. Non so se è diventata quello che voleva, se canta e suona la chitarra in giro per i locali, se scrive ancora quelle canzoni dolci e stridenti insieme che mi faceva sentire appena composte, ancora nude e tiepide. Ho sbirciato le sue foto su quel cavolo di Facebook; si è trasferita a Roma, naturalmente è bellissima, ma non sono riuscita a capire che cosa fa. Però sono sicura che è sempre lei, e se mi vedesse, invece, non mi riconoscerebbe. Non sono diventata niente di quello che forse avevamo deciso, di quello che sognavo, e ho ancora meno coraggio di quanto ne avessi allora, quando uscivamo insieme e lei mi spronava ad essere me stessa, come se fosse davvero la cosa più importante al mondo, come se ne valesse sempre la pena. Ora forse non riusciremmo nemmeno ad essere amiche, figuriamoci il resto.

- Tu non ti cambi? - mi dice Ilaria, che nel frattempo si è messa un vestitino rosso di velluto col colletto bianco ricamato.

- Caspita, sei davvero elegante…

- Lo so, io volevo mettermi i pantaloni e la maglia con le scritte che mi ha regalato zia per il compleanno, ma mamma non vuole, ha detto che il vestito per Natale è meglio…

- Mh...Capisco...Ma ti piace almeno?

- Sì, sì è carino, solo che le calze pizzicano da morire…

- Mettici i leggings se no...Così tieni il vestito ma almeno sei comoda…

- Civvia sei un genio! Ce li ho in un sacco di colori, aiutami a scegliere! - mi dice spalancando l'armadio.

- Guarda, questi sembrano proprio delle calze, mamma secondo me non se ne accorge nemmeno... - dico con spavalderia, come se non sapessi che mamma fiuta i dettagli inutili come cani da tartufo in pensione, capaci di disotterrare solo patate.

- Ok, ora la treccia francese!

- Dimmi se ti faccio male... - le chiedo preventivamente, ricordando antiche torture.

Appena finito, Ilaria si specchia ed esulta:

- È bellissima! La adoro! Grazie Civvia! Dai andiamo che siamo in ritardo!

Ila sfreccia di sotto, come se fosse davvero troppo tardi, e come se la serata fosse per forza piena di sorprese e di cose belle che ancora non conosciamo. Prendo in prestito un po' di questa energia fiduciosa, un po' di questa felicità che non chiede di sé e non si interroga e non dubita.
Mi guardo allo specchio e vedo che sono sempre io, ci sono ancora, sotto il trucco, o senza trucco, con gli occhi stanchi, o i brufoli da stress. Sono sempre io, nonostante questi mesi, e questi anni osceni. Vorrei rivedere Caterina, e vorrei che mi trovasse sempre bella.

- Silviaa!

- Sì arrivoo!

Arrivo giù e ci sono tutti: papà, con l'immancabile felpa rossa e bianca, chiacchiera allegramente con zio Oscar, mamma col grembiule addosso è intenta a spiegare cosa è andato storto nella preparazione di una cena che sarà comunque superba, zia Mara la ascolta e annuisce pazientemente.
Sono arrivati Paolo, nostro fratello, e la sua fidanzata Lucia: lui mi accoglie con un sorriso caldo e dispiaciuto, come se rivedesse il fantasma di un Natale passato, lei invece dice che non mi bacia per non contagiarmi il raffreddore, o per non rovinarsi il rossetto. Ilaria saltella di qua e di là come un folletto, galvanizzata da tutta quella gente, mentre Federica, la nostra cuginetta, tenta di stare al suo ritmo. È arrivata anche Chiara, sta in un angolo attaccata al termosifone, e si guarda attorno poco convinta. Mi sono mancati tutti, mi sono mancati un sacco. Ho deciso che voglio dirglielo. Voglio dirgli tutto.

- Silvia! Allora come va? Ti nascondevi? - chiede Paolo e mi mette un braccio attorno alle spalle.

- Sì, qualcosa del genere...Ahah...Ho aiutato Ilaria a farsi i capelli…

- È bellissima questa treccia, come hai fatto?

Mamma passando intercetta la nostra conversazione e si rivolge a me.

- Ah niente…

- Però l'hai convinta tu a mettersi quei fuseaux? - mi dice stavolta più a bassa voce, avvicinandosi al mio orecchio.

- Non è che l'ho…

Non mi lascia neanche rispondere e si affretta in cucina.

- Si è bruciato di nuovooo! - la sentiamo urlare un attimo prima che Paolo chiuda la porta.

- Allora cosa racconti? Come va all'università?

- Paolo... - tentenno come a voler cambiare argomento - Abbastanza bene…

Lucia mi guarda e mi sorride un po' troppo famelica.

- A tavola forzaa! Mettetevi tutti al vostro posto! - urla mamma.

- Ciao, comunque, eh! - mi fa Chiara avvicinandosi appena – Come stai?

- Ciao...Bene...Tu?

Lei annuisce. Vorrei chiederle di quella testa di cazzo per protocollo, ma in realtà naturalmente non mi interessa e così lascio perdere. Credo sia arrabbiata perché papà non ha voluto che lo portasse a cena, ma forse è per un altro motivo, lei ne trova sempre uno buono per arrabbiarsi.

- Scusate, c'è stato un piccolo imprevisto...Dobbiamo aspettare ancora un po' per mangiare, ce la fate, sì? - si scusa mamma imbarazzata come Paco, il nostro vecchio cane, quando lo beccavamo a pisciare nei vasi da fiori.

- Anto non ti preoccupare, non c'è assolutamente fretta...Non ci corre dietro nessuno, no? - dice zia Mara con la sua voce roca ma dolce, ignara di tutto.

- Sì, sì infatti...- risponde mamma decisamente poco convinta.

- Intanto possiamo chiacchierare un po'... - continua zia Mara con quei suoi occhi azzurri ben sottolineati dalla matita.

- Accendiamo la tv, che dev'esserci il telegiornale... - dice zio Oscar guardando papà.

Zia Mara gli lancia un'occhiataccia, e poi rassegnata va con gli occhi al cielo.

- È ancora presto mi sa... - dice papà, e intanto cerca il canale.

- Sentite...Perché nel frattempo, intanto che aspettiamo la cena, non facciamo suonare qualcosa a Ilaria? Eh, Ila, che ne dici? Ci fai sentire qualcosina?

Mamma naturalmente ha avuto l'idea del secolo, come ogni Natale. E grazie a dio non tocca più a me onorare certe iniziative.

- Non mi va... - si lamenta Ilaria.

- Dai su, fai sentire alla zia Mara che non sa come lo suoni bene il pianoforte…

- Dai Ila, facci sentire qualcosa...- incita papà, e a lui ti viene sempre male dire di no.

Allora Ilaria si alza e va al pianoforte. Mamma prontamente le va incontro e le sposta la treccia sulla schiena, poi le dice di togliersi il braccialetto che potrebbe graffiare il piano, e le chiede se non preferirebbe cambiarsi le scarpe, dato che ha ancora le pantofole.

- No, dai…

- Dai su, ci metti un minuto, vatti a mettere le scarpette col cinturino, che ti stanno benissimo.

- Ho detto che non me le cambio!

Ilaria l'ha guardata fissa negli occhi, con uno sguardo e un tono così decisi che hanno zittito pure il chiacchiericcio della tavola. Mamma fa un passo indietro e ci apprestiamo ad ascoltare.
Ilaria suona un paio di canzoni natalizie, e quando Paolo le chiede il bis lei ripete contenta “We wish you a Merry Christmas”, e si vede che ci ha preso gusto.

- Tesoro, sei davvero bravissima... - le dice Lucia con un sorriso finto dipinto di rosso.

Ila sorride e non dice niente. Papà dice grazie al suo posto, e Ilaria lo guarda un po' storto.

- Guardate che tempismo eh, proprio puntuale...Appena Ilaria ha finito di suonare...Adesso possiamo mangiare... - spiega mamma in uno dei suoi deliranti monologhi, mentre io e Chiara ci guardiamo scuotendo la testa.

- Che begli antipasti, mamma, come li hai fatti? - chiede Paolo.

Mentre mamma sciorina ricette, ingredienti, metodi e segreti dell'arte che le viene bene spontanea e incolta, Chiara, che si è seduta vicino a me non rispettando i posti assegnati, mi si avvicina ancora di più e mi fa:

- Sono contenta che tu sia venuta…

- Beh, credevi che non venissi per Natale...?

- Io a volte non tornavo per le vacanze...Non ti ricordi...?

- Sì, certo che mi ricordo. A me piace quando siamo tutti insieme.

- Già...Ma a volte è meglio se non ci sono proprio “tutti”... - dice calcando le parole nel modo giusto, e con uno sguardo che mi dice tutto quello che avrei voluto sentirle dire da secoli, da quando ha conosciuto quel becchino inglese. Le sorrido, chiedo conferme, e lei mi sorride ma con le labbra imbronciate, come quando si arrabbia per uno sbaglio che ha fatto e che il suo orgoglio proprio non accetta.

- Aspettate devo accendere le altre lucine dell'albero! - grida Ilaria - Ecco, ora va bene! - afferma quando anche l'ultimo degli aghi di finto pino è stato colpito dalla luce.

Sarà pacchiana questa nostra personale Las Vegas, ma a me piace. Le cose cambiano, ma ciò che è rimasto, che ha superato gli anni e i ripensamenti e le riflessioni esistenziali, è la voglia di stare insieme a tutti loro, anche se fanno chiasso e vogliono sempre la tv accesa. E Natale ha senso per questo, perché Chiara finalmente torna a casa, perché Paolo chiede a mamma le sue ricette, per l'entusiasmo di Ilaria, più travolgente del solito, per papà che si mette la sua felpa rossa e per una volta cena con noi, per zia Mara che è sempre bellissima, e dietro a un sorriso sincero sembra nascondere una vita intera. Voglio dirglielo davvero, farlo adesso che ci sono tutti.

- Volume, alzate il volume! - dice zio Oscar appena si è accorto che il tg è già iniziato.

- Siete tutti seduti? - chiede mamma dalla cucina – Arrivano i cappelletti!!!

Che pace nel cuore quando arrivano i cappelletti. Un piatto di brodo caldo abbastanza da rinfrancarti del freddo di tutti gli inverni. Vorrei che nonna fosse qui, prima a Natale era lei, timida e schietta, che ci portava i suoi cappelletti fatti in casa.
Ok, respira: glielo dico adesso, mentre ci apprestiamo a mangiare, e tutti mi ascolteranno, saranno attenti, incuriositi, certo, forse un po' sorpresi, ma comprensivi, sorridenti, accoglienti. Non mi giudicheranno e non mi faranno domande a cui non so rispondere. Mi diranno solo che loro sono la mia famiglia, che mi vogliono bene e che me ne vorranno sempre.

“Notizia inaspettata dalla Slovenia, il parlamento ha infatti riaperto il dibattito per l'approvazione della legge sui matrimoni gay. Secondo i sondaggi, il sessanta per cento degli sloveni è favorevole al matrimonio tra persone dello stesso sesso, e se il decreto fosse introdotto la Slovenia sarebbe il quattordicesimo paese europeo a permettere alle persone dello stesso sesso di sposarsi...”

- Per favore cambiamo canale, le bambine non dovrebbero sentire certe cose! - sbocca mia madre.

Maledizione. Forse è meglio se aspetto. Sì lo so che non dovrei dare per scontato nulla, che io per te non sono un'estranea in tv e che potresti imparare ad accettarmi se ti spiegassi che non c'è niente di sbagliato in ciò che sono, ma non ne ho proprio voglia, vorrei che fossi tu a dirmi che non c'è niente di sbagliato in ciò che sono.

- Certo che almeno a Natale potrebbero evitare di parlarne…

È stato papà a dirlo. Mi ha fatto più male di uno schiaffo, e infatti sento il calore salirmi alle guance. Vorrei scomparire, vorrei non essere mai esistita, tanto per quanto esisto adesso, non sentirei la differenza: mi sento vuota, nessuno mi vede, nessuno mi conosce davvero, nessuno può amarmi. Però ci sono i cappelletti, e le luci sull'albero, e il pandoro, è Natale, e sono a casa, ed è tutto bellissimo.






martedì 24 dicembre 2019

Natale a casa (parte 3)



- Ragazze, quando avete finito andate ad apparecchiare, per piacere? La tovaglia è nel secondo cassetto, sotto la tv...E ricordatevi il mollettonee... - urla mamma dalla cucina, mentre noi già in sala apriamo tutti i cassetti possibili e ridacchiamo per la parola “mollettone”.

- Mamma per quantii?

- Per diecii!

- Diecii??

Guardo Ila e lei alza le spalle.

- Mamma, come facciamo ad essere dieci?

- Eh, io, papà, tu, Ilaria, Chiara, Paolo e Lucia, zia Mara, zio Oscar, Federica, dieci!

- Ok... - dico poco convinta – Quindi Chiara viene da sola?

- Ah sì, sai come la pensa papà…

- Meglio così…

Davvero meglio così, che certe teste di cazzo preferisco non vederle, almeno a Natale.

- Dieci è un buon numero...Poi possiamo giocare a Saltinmente o Trivial Pursuit e fare squadre da cinque…

- Come fai squadre da cinque, scusa? Non sono un po' troppe persone?

- Eh lo so, però io e Federica partiamo svantaggiate perché siamo più piccole...Poi anche papà e zio Oscar non è che ne sanno tanto…

Trattengo a stento un sorriso. Non ce la vedo Ilaria a partire svantaggiata, proprio in nessuna cosa. Potrebbe essere una di quelle ragazzine che si laureano a sedici anni e a diciotto si candidano in parlamento, ma cerco di non dire cose di questo tipo, perché anch'io da piccola ero additata come genio, e crescendo non è che le cose siano andate esattamente in quella direzione. Il fatto è che da adulti non ci aspettiamo poi molto dai bambini, e ogni cosa che fanno ci sembra oltremodo speciale, soprattutto se sono personcine a cui vogliamo bene. Probabilmente Ila diventerà una ragazza piuttosto sveglia e intelligente, niente di più, e andrà più che bene così, e almeno non avrà i complessi di chi era destinata a diventare molto altro. Certo, questo è quello che cerco di fare io, ovviamente mia madre la pone sullo stesso piedistallo su cui poneva me, e non si sta bene su un piedistallo troppo a lungo, finisce sempre che ti annoi o ti gira la testa, o ti accorgi che la vita non si vive immobili sui piedistalli, ma si guadagna metro per metro, nel sudore e nella polvere, ed è una sfida con te stesso più che con gli altri, perché a fare troppi confronti finisci per accorgerti che ci sarà sempre qualcuno più bravo di te.

- Allora, papà a capotavola, giusto?

- Giusto, Capitano.

- Paolo e Lucia chiaramente vicini...Chiara invece la mettiamo qui…

- Sei contenta di rivederla?

- Chiara?

- Ovvio.

- Beh sì, certo...Soprattutto se viene da sola…

Il ragazzo di Chiara, o forse dovremmo dire uomo, o forse subumano, è una di quelle persone che a volte incontri nei treni o negli aeroporti, di quelli con la ventiquattrore incollata alle mani, l'orologio costoso e la cravatta troppo stretta, con la faccia arcigna, sempre impegnato a lamentarsi perché il suo treno o aereo è in ritardo, ed è impensabile che il destino abbia fatto a lui questo grave torto. Ovviamente che tocchi agli altri comuni mortali è normale, ma non dovrebbe mai riguardare lui, che viaggia in prima classe, e ha una ventiquattr'ore, un orologio troppo costoso e una cravatta troppo stretta. Se la stringesse ancora di più farebbe un favore al mondo. Da quando c'è lui, Chiara, che è nostra sorella maggiore, vive come obnubilata da un amore che a me sa troppo di dipendenza, e che quindi disprezzo. Parla come lui, pensa come lui, e addirittura si veste come lui le chiede di vestirsi, roba che un tempo avrebbe considerato da chiodi quanto me. Nelle foto lei non sorride nemmeno più come prima; tutti dicono che si vede che ha il viso rilassato e che è felice, ma a me non sembra felice in quelle foto, mi sembra proprio un'esaltata. Mia madre venera chiunque si avvicini a noi, come se fosse un sacrificio degno di plauso esagerato, mio padre invece, in parte per una generale e un po' vigliacca paura di perderci, e in parte perché è più sano di mente, ha capito che quel ragazzo, uomo, entità, è inquietante e oscuro come un becchino di una qualche campagna inglese, capace solo di scavare fosse e di buttarci dentro cadaveri. Quello di mia sorella metaforicamente parlando c'è già finito lì dentro; assurdo come una persona possa rubarti la tua identità e tu stia pure a guardare e a sorridere beatamente. Da quando sta con lui, lei ci chiama sempre meno, anzi dimentichiamo gli eufemismi, non ci chiama affatto. Eppure eravamo così legate, io e lei “unite come i lacci di una scarpa”. Era una dedica che mi aveva scritto in quinta elementare, o giù di lì. Io e lei “amiche per sempre”, come è segnato a uniposca su quasi tutti i quaderni di scuola, delle elementari e delle medie. Cambia tutto, certo, però almeno a Natale stiamo tutti insieme, e lui, il becchino, non ci sarà. È solo una cosa per la famiglia, non può farne parte chiunque.

- Mancano i bicchieri! Non so però dove sono quelli col bordo d'oro che usiamo sempre a Natale…

- Mamma, dove sono i bicchieri di Natale? - le chiedo affacciandomi alla porta della cucina.

- Nella vetrinetta nuova, chiedi a Ilaria che lo sa...Oh maledizione, chiudi, chiudi la porta!!

Chiudo in fretta prima che mia madre mi trascini in quello che sembra l'inizio di una delle sue crisi isteriche, scaturite sempre dai più ignobili motivi.

- Sono nella vetrinetta nuova.

- Ah, giusto! Li devi prendere tu però, io non ci arrivo... - mi dice indicando la mensola più alta di una patetica, tragicomica vetrinetta che avevo chissà come ignorato.

- Ehi ma avete messo qui le foto...? - chiedo un po' spaesata. Gli album con le foto di famiglia sono sempre stati nel mobile di sopra, nella stanza di mamma.

- Sì, mamma le ha spostate...Dopo ti faccio vedere tutte le cose nuove che ci sono...Però devi indovinare...

Adora farmi entrare in una stanza e chiedermi: “Dai, cosa c'è di diverso, indovina!”, e adora che io non ci arrivi mai, e le provi tutte, anche quelle più stupide, ad esempio dico: “Il termosifone”, o “Il ragno”, se magari c'è un ragno sul soffitto. E lei ride come se fossero davvero cose divertenti.

- Sì, dopo voglio vedere tutto...- dico un po' distratta. Davvero vorrei non perdermi niente, neanche le cose più stupide. Non resisto e apro uno degli album grandi di foto.

- Civvia dobbiamo finire di apparecchiare... - si lamenta debolmente Ilaria.

- Sì, un attimo…

- Allora vieni a sederti sul divano... - mi dice quando si accorge che proprio non ce la fa a staccarmi dall'incantesimo delle foto di famiglia.

Mi metto a gambe incrociate sul divano, Ila accanto a me scruta un po' le foto, un po' il mio viso.
Queste foto mi piacciono da morire, anche se a volte, come tutte le foto, sanno mentire. Sono tutti giovani, noi siamo piccoli, ci siamo tutti. In quel periodo non mi chiedevo certo quale fosse il mio posto, ero nell'unico luogo possibile, e non c'erano altre città, altri mondi, altre lingue. La mia realtà era l'unica che esisteva e nel suo piccolo non aveva neppure difetti. Un'utopia che dovrebbe farmi schifo, forse, dovrei rifiutarla, condannarla, eppure mi piace, mi conforta. Una parte di me vorrebbe non aver lasciato mai quella bolla, quel liquido amniotico che mi drogava e mi faceva felice. Forse, una parte di me è davvero ancora lì, a piangere nascosta dietro alla gonna di mamma, o abbracciata al collo di papà, a zoppicare incerta sulla prima spiaggia, o a colmare a rallentatore le distanze tra un divano e l'altro. Sono quella che annusa i fiori del giardino e li saluta con la mano, quella che si mette un dito nel naso distraendo l'attenzione dello spettatore dalla tragica tuta in acetato di Paolo e dalla frangetta troppo corta di Chiara. Sono quella che sorride eccitata per il primo giorno di scuola, quella che suona il piano al concorso nazionale, quella che abbraccia amiche del cuore mai più riviste, quella che, all'improvviso, si copre con una mano e non vuole più farsi fotografare. E allora inizia una serie di foto dal volto coperto, o abbassato, come quello di un carcerato, di un assassino, di un colpevole. E poi dalle foto sparisco del tutto, come un fantasma. Si perdono le tracce dei miei ultimi anni che non sono stati registrati, fissati, conservati. In uno dei passaggi si è perso qualcosa, e ho smesso di crescere, ho bloccato la mia evoluzione e ora sono qui fuori posto e disgustosa come un ibrido. Non ho nessuno che mi ami e che mi conosca davvero, non so fare niente, non sono niente.
E, cosa più grave di tutte, non ho coraggio. Vivo una vita in esilio da me stessa. Non so nemmeno se ci torno all'università, non so perché dovrei farlo, non riesco a pensare a una ragione per alzarmi domani, figuriamoci al futuro.

Sto per chiudere l'album dei dannati ricordi, quando Ilaria indica una foto in particolare e mi chiede:

- Questa chi è?

Ha indicato Caterina.

- È una mia amica...Era una mia amica…

- Non me la ricordo...C'è in un sacco di foto però...Al mare...Anche in quelle di Gardaland…

- Oddio sì...Mi ero dimenticata che eravamo andate a Gardaland...Beh lei non te la puoi ricordare perché eri troppo piccola...Però veniva anche a casa a volte, e tu facevi un casino ogni volta che c'era lei...Le presentavi tutte le tue bambole, i pupazzi, e le altre cose...Andavi avanti per ore, e noi che dovevamo studiare..Però ci facevi anche ridere…

- Poi perché vi siete lasciate?

- Cosa? - chiedo stupita, quasi spaventata.

- Sì, perché non vi vedete più? Perché non siete più amiche? Avete litigato?

- Beh...No, non abbiamo proprio litigato...O forse sì, sì, qualcosa del genere…

- Cioè? - la mia risposta non deve averla convinta molto, e infatti non convince neanche me.

- Non lo so, boh non mi ricordo…

- Beh che bei capelli che ha però…

- Sì, era molto carina...E a scuola le andavano tutti dietro…

- Eri gelosa?

- No, no non ero gelosa…

- Beh scusa anche tu sei carina…

- Sì va beh... Senti, perché non finiamo di apparecchiare?

- Sì, Capitano, sono pronta al suo servizio – risponde Ila mettendosi sull'attenti.

- Dai marinaio, andiamo…

- Avete finitoo? - urla mamma dalla porta.

- Siii! - le rispondiamo noi in coro.

- Il telefonooo!

La voce roca di papà non so da quale antro della casa ci annuncia che sta squillando il telefono; lui non vuole mai rispondere, ma si sgrava di ogni ingrato compito ricordandoci che il telefono sta squillando. Adoro quando squilla, è una di quelle piccole cose che mi emoziona come quando avevo otto anni, e facevamo le corse per andare a rispondere.

- Paolo e Lucia stanno arrivando! - informo gli altri poco dopo aver messo giù. 

- Ahh, mi devo cambiare! - squittisce Ilaria tutta agitata - Mi devo mettere elegante! Mi aiuti? Mi aiuti a fare i capelli?

- Va bene, se non è una cosa troppo complicata…

- Chiamate Papà che si sta bruciando qualcoosaa! - grida mamma dalla cucina.

- Papààà!

- Guardate che sta squillando il telefono!

- Vai tu!

- No, io non vado.

Suonano alla porta.

- Dev'essere la ziaa andate ad aprireee!!!

- La portaaa!

- Zia Mara zia Mara!

- Ciao a tutti, ciao bella! Come va?

Zia, è così bello vederti, ogni volta che ti vedo penso che tu sapresti capirmi, che con te potrei confidarmi, come quando ho detto solo a te che a scuola mi prendevano in giro, che odiavo le medie e che non ci sarei più tornata. E il tuo sorriso accogliente capace di sdrammatizzare tutto mi ha fatto vedere il lato comico della cosa, come se potesse essercene uno, e il tuo buon senso mi ha ricordato che tre anni sarebbero passati in fretta, che tanto valeva concentrarmi su qualcos'altro, e andare per la mia strada, perché non puoi mai accontentare tutti, quindi tanto vale che si fottano. Dicesti proprio così: “Che si fottano”. E io mi stupii e fui così felice. Era come se all'improvviso mi avessi dato un potere nuovo, un'arma per sconfiggerli, per ignorarli. “Vai per la tua strada, che si fottano!”, mi ripetevo ogni volta che ridevano per il mio naso, o miei vestiti, o il mio aspetto o il mio atteggiamento, o per chissà cos'altro che non andava bene. Zia, sei sempre così allegra, così bella, così saggia, perché non posso dirti anche quello che ho in testa adesso, come tutto il resto?

- Auguri a tutti eh! Papà dov'è? - chiede zio Oscar, che senza papà si sente perso.

- È di sopra, adesso scende…

- Vado ad aiutare vostra madre in cucina, la troverò lì, giusto?

- Segui il fumo e la troverai…

- Oddio, e cos'è successo?

- Ma no niente...Credo...Noi dobbiamo andare un attimo su ad aggiustarci i capelli...Torniamo subito!

- Sì, facciamo in un baleno! - assicura Ilaria, e corriamo su per le scale.




(continua...)
 
 
 
 

lunedì 23 dicembre 2019

Natale a casa (parte 2)



A casa è già immensamente Natale: l'albero al centro della sala è assediato dagli addobbi, lanciati come molotov, a caso, senza cognizione, ma con la certezza di sollevare fumo e scompiglio. Renne, cervi, alci, vischio, muschio, babbi natale, stelle comete, stelle cadenti, stelle filanti, collane di perle, ghirlande gonfie e fitte come cespugli, e buffe ghirlande spelacchiate che hanno visto tanti Natali di cui ancora non riusciamo a liberarci. Poi pupazzi di neve, neve finta, candele, adoro le candele, lucine colorate e gialle e bianche, a intermittenza o fisse, che riproducono le note di affermate canzoni natalizie. Il nostro albero di Natale fischietta Jingle Bells e mia madre mi abbraccia come se non mi vedesse da decenni. Lacrime, pianti, sospiri, lamenti; quando torni, come stai, perché sei andata via, ma stai mangiando, hai fame, sei dimagrita, quando torni.

- Hai visto che bella la casa quest'anno? L'ho addobbata puntuale l'otto dicembre stavolta...Non sapevo cosa fare, e allora ho iniziato ad addobbare... - mi dice mamma nella fase maniacale del suo disturbo bipolare, mentre mi prepara un tè, dei biscotti, una fetta di torta e una di pandoro.

- Sì, è bella...Sa proprio di festa…

- Vatti a lavare che intanto ti preparo tutto…

Mi faccio la doccia e mi spoglio di tutti i brutti ricordi degli ultimi mesi. Le persone balorde che ho incontrato, gli stronzi, quel professore che mi ha bocciato all'esame dopo solo una domanda, cosa di cui ancora non ho detto niente. Lavo via le alzatacce di mattina, le nottate insonni a fingere di studiare, le attese in stazione e nella metro; scrosto quello che resta delle stronzate che mi ha detto la psicologa, delle storie che mi ha raccontato Giulia, o delle cattiverie che Andrea ha sputato alle mie spalle. Mesi che come scorie finiscono nello scarico, e nelle fogne, l'unico posto che meritano. Tutte le facce che ho indossato rischiando di soffocare si cancellano, sciolte dall'acqua che mi batte forte sul viso; picchia forte che magari mi sveglio, picchia più forte che magari sto meglio.

- Hai finitooo?? - urla mia madre dalla cucina – Posso usare l'acquaa??

Il suo grido mi raggiunge i timpani con il fiotto di un proiettile, le urlo a mia volta un “Siii” che rimbalza e sfonda le pareti. In questa casa urliamo tutti eppure nessuno riesce mai a sentire l'altro.
È come se fossimo assorbiti e affascinati dal nostro stesso urlo. Forse siamo dei fottuti egocentrici, è possibile. Il mio naso sembra sempre più grande, forse ha pure una gobbetta; non riesco a capire se ha cambiato forma o se è sempre stato così e non me ne sono mai accorta. Perché prima portavo gli occhiali ma da quando ho messo le lenti noto la distanza che si crea tra l'attaccatura del naso e poi il resto del naso: c'è come un avvallamento, una rampa di lancio come quella su cui fanno skateboard i ragazzetti, proprio prima che il naso inizi ad occupare il mio viso con tutta la sua dannata prepotenza. Nonostante questo, lo specchio di questo bagno mi fa sembrare sempre più bella, non so perché, ma ha la luce giusta.

- Dov'è, dov'è dov'è??

Ilaria riempie la tromba della scala coi suoi schiamazzi. Dev'essere appena rientrata, e già è pronta a scodinzolarmi attorno come un cagnolino esaltato.

– Civviaa, Civvia!!! - mi bussa frenetica alla porta e quando le apro sorride e mi abbraccia ad altezza dello stomaco, cioè dove arriva, e mi stritola come un peluche.

- Ehi, ehi, mi fai male!

- Mi sei mancata Civvia…

- Anche tu Ila mi sei mancata...Un sacco…

- Davvero? - mi chiede con occhi grandi e uno sguardo che ti mette in soggezione, quasi dicesse: “Guarda che se non è vero me ne accorgo, e sarà la cosa più patetica che tu abbia mai detto”.

Adoro quando i bambini danno molta importanza alle cose, e ci tengono a non farsi fregare, perché hanno capito che devono stare con gli occhi aperti, a vigilare su un mondo pieno di persone che non danno più importanza a niente.

- Sì, davvero, mi sei mancata moltissimo - le dico, e sono contenta di pensarlo davvero, perché se non fosse così lei lo saprebbe, e mi farebbe sentire davvero una merda.

- Ti va di vedere i miei nuovi quaderni? Oh, anche il nuovo zaino! Non hai visto nemmeno quello! - dice con un tono che mi fa davvero credere che il suo zaino nuovo sia la cosa più importante che mi sia persa in questi mesi lontana da casa; e forse è davvero così.

- Aspetta un attimo che mi vesto, poi mi fai vedere tutto…

- Posso venire con te? Non sono entrata in camera tua, ti giuro!

So che vorrebbe spostarsi nella mia camera, ma questo, per quanto le voglia bene, non succederà mai. Non prossimamente, comunque. So che tutto cambia, lo so se guardo i miei amici o pseudo amici che attorno alla boa di un paio d'anni si sono dileguati in giro per il mondo, come formiche in fuga da un formicaio distrutto dallo stivale di qualche imbecille. Oppure inseguendo echi di sirene, terre promesse, accodandosi ad altri in fila verso un nuovo mondo, fosse a due passi da casa oppure lontano chilometri. Necessità o scelta, siamo approdati su altre isole, e tutt'attorno è diverso, inesplorato, selvaggio, e fa così paura che vorrei solo tornare indietro e nascondermi sotto al banco come quando c'era il terremoto. O meglio, le prove per il terremoto. Era tutto un esperimento, prima, una simulazione della vita, entro i limiti sicuri di un ambiente noto, dalle variabili precise e controllate. Certo, ora tutto cambia, e continuerà a cambiare; non riconosco più i corridoi della scuola, le facce degli amici, le insegnanti che si avvicinano per chiederti se c'è qualche problema.
A volte io stessa non mi riconosco negli specchi, che non sono accomodanti come quello di casa mia, del mio bagno, non hanno le luci giuste, ma luci sparate come nei camerini di certi negozi di vestiti a buon mercato, ed evidenziano tutti i difetti, che sono sempre troppi. Però se mi guardo attorno, qui dentro, tutto è rimasto lo stesso: la mia camera intatta come l'interno di una chiesa, ed egualmente sacra, sepolcro della mia adolescenza, con altarini per celebrare le mie personali divinità. I poster di Ligabue appesi, la stampa del quadro di Van Gogh, le cartoline che Chiara mi mandava da Parigi, le liste dei film da vedere e dei libri da leggere, i cd masterizzati con le canzoni preferite, e poi le pile di libri e riviste troppe belli per essere aperti, che ancora aspettano protetti sotto uno strato di cellophane e di polvere. Una vita ferma, in attesa, come me che aspettavo un inizio e mi sono schiantata contro una fine. C'è di più in questa stanza, più dei mobili che è rassicurante trovare sempre al loro posto, più del colore delle pareti che è lo stesso che ho scelto quando avevo undici anni, più dei miei cimeli uguali a quelli di tanti altri. C'è qualcosa che non posso dire, che non riesco a spiegare, come una parte di me congelata che mi porto sempre dentro, e che quando sono qui si sbrina. Dovrebbe farmi paura, forse, dovrei rifiutarlo, e invece mi piace, e mi accomodo sul mio letto, che ha il materasso più comodo del mondo.

- Sai che il gatto di zia Mara è morto? Poverino, ha mangiato troppi topi e ha fatto indigestione... - mi racconta Ilaria mentre si pettina i capelli con una spazzola che ha trovato sulla mia scrivania.

- Ah sì? - rispondo mentre ad occhi chiusi ripenso a tutto il resto.

- Sì, quel gatto si mangiava qualunque cosa...Una volta siamo andati a trovarla e lei mi ha dato quei cioccolatini tondi, sai quelli che mi piacciono...Beh me li sono dimenticati sul puffo in salotto, sono andata via un attimo e quando sono tornata non c'erano più, Rolando se li era mangiati tutti, anche con la cartina!

Mi viene da ridere a pensare a Rolando, il gatto obeso goloso di cioccolato, morto per indigestione di topi. Uno che nella vita si è fatto andare bene tutto.

- Adesso zia Mara ha detto che ne prendono un altro...Sai, per Natale spero proprio che mi regalino un cane, perché sì anche i gatti son belli, cioè a me gli animali piacciono tutti, però i cani sono i miei preferiti. Tu cosa preferisci, i cani o i gatti?

Vorrei essere una di quelle persone che fanno le feste al cane quando ne vedono uno, senza preoccuparsi di saliva o zecche, una di quelle che si siedono per terra, sui prati, senza pensare alle siringhe, una che bacia in pubblico, baci in bocca, intendo, senza preoccuparsi di quello che pensa la gente, ma la realtà è che purtroppo non sono così. Difficilmente sono a mio agio, e mi muovo nello spazio come se fossi sempre capitata in un luogo per sbaglio, e cercassi di occupare meno posto possibile. Seduta negli angoli, in fondo alla classe, dietro alle colonne addirittura. È quasi una dote la mia abilità nel mimetizzarmi col paesaggio, giocare a trovarmi potrebbe essere lo spunto per un nuovo libro, sul genere del cane Spotty, quello giallo con macchie marroni che nei miei libri dell'asilo si nascondeva un po' ovunque e faceva altre cose stupide che noi bambini dovevamo smascherare.

- Ragazzee!!! Scendeteee!!!- urla mamma dal piano di sotto.

- Dobbiamo andare giù...Ma ti devo ancora far vedere tutto!

- Non ti preoccupare, abbiamo tempo... - mi rassicuro, e intanto scendo dal letto, che ogni volta è come una scalata. Per fortuna oggi ho lei che mi tira per il maglione, impaziente come se stesse sempre per accadere qualcosa di importante, come mi sentivo anch'io anni fa, il giorno della Vigilia.

- Dai, forza, se volete fare merenda la fate adesso però, subito...Altrimenti stasera non mangiate...E lo sapete che mangiamo presto…

- Quanto presto? - chiedo, in memoria di cene della Vigilia iniziate alle sette di sera.

- Eh ragazze, quando ci siamo tutti si mangia, su…

Mamma torna ai fornelli, che sono il suo personale altare. Pentole e padelle sono ovunque, e un fumo fitto esce da un pentolone che sembra quello di una strega.

- Chi sono “tutti” esattamente? - mi informo con discrezione.

- Eh, noi...I soliti…

- Guarda, Civvia, la stella cometa l'ho fatta io! - mi dice Ilaria mostrandomi un biscotto con la glassa bianca che sta in cima a tutti gli altri nel piatto. Però lo mangio domattina a colazione, è per il venticinque.

Il tè caldo allo zenzero e limone, i biscotti fatti in casa, mamma che cucina, Ilaria che mi sorride e mi vede migliore di quello che sono, la cucina così accogliente e così calda rispetto al freddo di fuori.
Il tempo pigro e comodo di questo pomeriggio, di queste poche ore della Vigilia, è come una benedizione, è il mio stupido regalo di Natale. Sorseggio lentamente il tè, goccia a goccia sulle labbra.



(continua...)
 
 
 
 

domenica 22 dicembre 2019

Natale a casa (parte 1)



Natale mi piace perché tutti tornano a casa.
So che devo fingere che questa promiscuità culturale mi piaccia, vivo in mezzo a gente colta, giovane e cosmopolita, ragazzi che fanno l' Erasmus e tornano profeti di una nuova religione, sprezzanti della vita passata, pronti a liberarsi dei vecchi vestiti, della vecchia lingua, dei vecchi amici e ad abbracciare nudi la vita nuova. Così, per non essere considerata eretica ed essere arsa nella piazza di qualche capitale europea, fingo che sia giusto, che lo scambio culturale sia l'unica via possibile, che restare nel luogo dove sei nato è necessariamente uguale a morire e viaggiare è la somma via verso la conoscenza. So che devo fingere, ma la realtà è che sogno di restare nella mia città, a casa mia, e di poter dormire nel mio letto, tutte le sere fino alla fine dei giorni. Mi va bene pure la nebbia, perché è la mia nebbia. La mia stanza, i miei libri, i miei film, la mia musica, le vie conosciute della città dove sono nata, che sono belle perché sono sempre le stesse eppure non smettono di stupirmi. L'altro giorno sono finita in un vicolo in cui non ero mai stata, e all'improvviso sembrava una città nuova.
E so che succederà ancora, perché non sono mai stata molto audace nell'esplorare, e se questo per tanti è un difetto, per me è la possibilità ancora intatta di sorprendersi con poco, di meravigliarsi, e in quegli attimi di meraviglia io ripongo la mia felicità, o almeno, l'unica felicità su cui puoi fare affidamento. Le altre, quella destinata a durare, o quella che è il frutto del tuo impegno o sacrificio, o quella che è ricompensa dopo una vita in attesa, beh, quelle non sono molto affidabili, non ci conterei troppo. Però restano gli attimi di meraviglia. Un incontro, una scoperta, una stella che si accende all'improvviso sul cielo buio e cieco, una porta che si apre e scopri che al di là c'è una stanza che pensavi non esistesse, o addirittura un intero mondo. Per la gente che conosco tutto questo sarebbe folle, ma per me è folle passare più tempo a parlare un'altra lingua piuttosto che la propria, fino a dimenticarsi parole in italiano, vederle scivolare dalla mente fino alla lingua e poi fermarsi lì, proprio in punta. Trovo folle allontanarsi dai propri amici e dalla propria famiglia, voltargli le spalle come se non fossero abbastanza importanti per restare e, infatti, andarsene. Per fare amicizia poi con persone che probabilmente non guarderesti neanche per sbaglio, se solo fossero del tuo stesso paese, e conoscessero le stesse strade e gli stessi modi di dire, ma che invece sono illuminate da una luce speciale perché straniere; la reputo quasi una forma di feticismo.
E poi, la follia estrema, rinunciare al nostro cibo. Di sicuro per loro la cosa più patetica di tutte, restare legati a un posto per il cibo, come se quello che mangiamo non ci nutrisse, rendendoci una cosa o un'altra, così come fa la cultura con lo spirito. Io sono felice dopo un piatto di tortelli come non potrò mai essere dopo un kebab, o un vassoio di sushi. E lo so perché l'ho provato, non certo per una sterile e ottusa forma di campanilismo. Non sopporto questa convinzione per cui la vita vera debba essere per forza lontana da casa.

- Allora dove sei? A che ora arrivi? Ci fai sapere?

Papà mi ha scritto un sms e lo vedo solo ora. È di tre ore fa, accidenti, e per scriverlo ci avrà messo altre tre ore, quindi presumibilmente è da questa mattina che aspetta una mia risposta. Sarò sempre in ritardo, non se ne esce.

- Tra mezz'ora sono in stazione... - gli scrivo aggrappandomi a una faccina che sorride, pure lei poco convinta.

Papà mi risponde secco con un “ok”.

Dopo circa un'ora il treno è ancora fermo nella stazione più ignota che l'uomo abbia mai concepito, roba che anche i gatti randagi se ne vanno disgustati perché l'isolamento li deprime. Di sicuro a me deprime, e infatti mi sento così sola che vorrei piangere. Mi succede spesso quando sono confinata in questi tristi luoghi di passaggio dalle luci troppo sciatte. Respiro aria fredda e secca, ma gli occhi si fanno umidi, e tutta questa gente attorno con me non condivide niente. Chi è in gruppo è su un'altra galassia, dove non ci sono inverni, o gelate, o stazioni abbandonate; chi invece è solo si consola immerso nello schermo che lo distrae dal mondo. Io non appartengo a nessuna di queste categorie, e interagire con loro sarebbe sempre uguale a disturbare, e di “scusate il disturbo” ne ho piene le scatole. Mi limito allora a guardare fuori dal finestrino, a sentirmi immobile e dimenticata da tutti come quei binari arrugginiti, e mi si ghiaccia un po' il cuore, e spero di arrivare presto alla prossima stazione, di arrivare a casa.

Scendo dal treno come da un incubo e vado a passo svelto e deciso verso l'uscita, con il conforto di sapere dov'è, e cosa c'è fuori. La piazza, la fontana, la statua di non so quale eroe della patria. Anche la stazione è cambiata, l'hanno rifatta da poco, ma le vie son sempre quelle, so che andando dritto andrei verso il centro, e da lì tutta la città si fa piccola nella mia mappa personale. Scruto l'aria a destra e a sinistra e scorgo il camioncino di papà, parcheggiato in lontananza. Lui mi aspetta nel suo cappotto verde un po' consunto, sempre lo stesso, abbracciato al volante con l'aria stanca di chi si sostiene a fatica. Mi guarda di sbieco mentre salgo e mi fa:

- Sbaglio o avevi detto mezz'ora?

Sono qui da cinque secondi e l'ho già deluso.

- Lo so, il treno ha avuto un guasto, si è fermato…

- Potevi avvisare…

Il camioncino parte e io mi sento così piccola e stupida che mi guardo allo specchio e ho treccine e moccio al naso. Papà mi passa il suo fazzoletto di stoffa stropicciato, forse pure mezzo usato; ha un odore di giacca vecchia e mi fa un po' schifo, ma è stato carino e disponibile come al solito, e allora mi dispiace, e mi soffio lo stesso il naso con un angolo del fazzoletto. Poi lui allarga la mano per riprenderselo, e se lo rimette in tasca. Non diciamo niente per tutto il viaggio. Lui guida e ogni tanto strabuzza gli occhi per restare sveglio. Io lo guardo di soppiatto, sperando che non se ne accorga, e scopro che la sua barba ha più peli bianchi, la pelle delle guance è più rossa e quasi si intravede qualche venuzza, così come sul naso. Attorno ai suoi occhi, così uguali ai miei, qualche ruga che non ricordavo, e delle occhiaie cupe a fare da chiaroscuro. Vorrei piangere, e infatti qualche lacrima si affretta negli occhi e spinge per uscire; guardo dall'altra parte, così non mi vede.

- Tutto bene? - mi chiede a un certo punto.

- Sì, bene…

- Bene…

E continuiamo a superare case e pianura in silenzio, risvegliati ogni tanto dal sobbalzo di un dosso.



(continua…)




sabato 21 dicembre 2019

Notte stellata (parte 2)



Il suono del cellulare che squillava dall'altra stanza lo riportò al presente. Una telefonata di lavoro, assurdo che ancora non lo lasciassero in pace. Erano ormai le otto e mezza di sera, e l'ultimo supermercato ancora aperto della zona avrebbe chiuso alle nove. Poteva ancora fare in tempo.

- Sara, forza, andiamo a fare la spesa...E a prendere il pandoro per i nonni…

- Io sono già pronta – disse la bambina volteggiando nel suo cappottino rosa.

- Bene, bene...Allora andiamo, non abbiamo molto tempo…

Saltarono in macchina e si diressero verso il supermercato. L'aria era umida e gelida e appannava i respiri; lui si rincantucciò nel cappotto dal bavero alzato, mentre Sara saltellava tenendolo per mano. La periferia era quasi vuota a quell'ora, nonostante le feste, e la luce al neon del piccolo supermercato irradiava lo spazio conferendogli un'irrealtà sospesa e angosciosa, come nel drugstore all'angolo di una città straniera e abbandonata, dipinta da uno dei suoi pittori preferiti.
Le poche persone che c'erano camminavano come fantasmi, attraversandosi senza vedersi, senza toccarsi. Comprarono il necessario, seguendo la lista della spesa, e naturalmente il pandoro da portare ai nonni. Lui aveva fretta di andarsene, tornare a casa, chiudere la porta e lasciare fuori quella nervosa sensazione che lo disturbava, insinuandosi sotto il cappotto, sfidando le barriere della sua razionalità. I centesimi del resto caddero per terra con un rumore cristallino ed irritante.
Subito Sara si inginocchiò a terra per raccoglierli.

- Andiamo Sara, fa lo stesso, lascia stare...Dai, tirati su…

- Ma papà…

- Andiamo.

Fuori dal supermercato, seduta per terra, con la schiena appoggiata al muro e il cappuccio della felpa calato sul viso, una ragazza stava dondolando la testa lentamente, come al ritmo di una musica che sentiva solo lei. Aveva davanti ai piedi un cappello nero, contenente una manciata di monetine di rame e un mozzicone di sigaretta. Lui non poté evitare di fissarla: era così giovane che avrebbe potuto ancora andare a scuola, non la vedeva bene in volto per via della felpa e della frangia bionda che le ricadeva sugli occhi. La notte si era fatta più scura, il cielo si animò di vortici di nubi, si alzò un vento freddo che mosse gli alberi, i cespugli, persino le case sembravano ondeggiare nelle tenebre. Chissà qual era la sua storia, chissà come ci era finita lì quella ragazza, sola, in una notte di Natale, davanti a un supermercato di una periferia spaventosa, così fragile e indifesa in un'oscurità che avrebbe inghiottito chiunque, che aveva turbato anche lui, che pure era di passaggio. Sarebbe tornato a casa, e lei sarebbe rimasta lì. Aveva una casa ad accoglierla, una famiglia che la aspettava? Aveva mai avuto queste cose e se era così, come le aveva perdute? Perché?
Ebbe l'istinto di chiederle almeno una di queste cose, o limitarsi a domandarle: “Hai bisogno di aiuto?” Poi si disse che forse, dopotutto, stava esagerando nel suo morboso interesse per quella ragazza, nel bisogno di saperne di più di lei e, addirittura, nella presunzione di dover fare qualcosa per aiutarla. Purtroppo, ce ne sono tanti ragazzi così, per le strade, anime randagie con cui la vita è stata crudele, condannati da un destino troppo pesante perché uno sconosciuto possa intervenire e, pur con tutta la buona volontà e la compassione, fare davvero qualcosa per loro, per salvarli.
Certo, era triste, sconfortante, vedere quel lato della realtà così osceno invadere le strade della propria quotidianità. Era difficile per lui guardare da un'altra parte senza sentire la tenaglia del rimorso e del senso di colpa addentargli lo stomaco. Odiava come il brutto della vita, il grottesco, il mostruoso, l'assurdo arrivavano a sporcare e inquinare irreparabilmente il bello dell'arte, il suo ideale di purezza e perfezione. Ma in fondo tutto ciò non era affar suo, non lo riguardava e non poteva farci molto, se non cercare di tenere quel mondo sotterraneo, quella bruttezza deforme della vita, il più lontano possibile.
Ed ecco che, quasi come in una risposta beffarda e orribile a quei suoi pensieri, la ragazza iniziò a bisbigliare nervosamente qualcosa e tirò fuori dalla tasca della felpa una cordicella marrone scura, simile a una cannuccia di plastica.
Fu allora che lui si voltò e notò con terrore che Sara non c'era, era scomparsa. Sentì l'eco della sua risata gorgogliare in sottofondo.

- Sara?! Sara!! - urlò disperato mentre il cielo gli cadeva addosso, le pennellate ondulate e materiche lo avvolgevano fino a stordirlo.

- Papà sono qui! - disse lei riapparendo alle sue spalle, ignara dell'angoscia del padre.

Lui la strinse in un abbraccio, la prese per mano e si affrettò a portarla via. Ma i centesimi caddero per terra con un rumore cristallino ed irritante.

- Scusa, volevo metterli nel tuo cappello... - disse Sara guardando rapita e assorta la ragazza bionda seduta per terra.

- Sara! - urlò il padre sconvolto e la strattonò perché lo seguisse, ma non prima di riuscire a vedere la ragazza bionda che ringraziava la sua bambina con un dolce sorriso che rivelava quelle sue tenere fossette.



venerdì 20 dicembre 2019

Notte stellata (parte 1)



Forse non è una cosa bella da ammettere, ma non pensava sarebbe mai diventato padre.
Se immaginava il suo futuro, e lo faceva spesso, in quelle notti d'alcol e nebbie, o nella strada che percorreva a piedi per arrivare a lezione e poi per tornare a casa, vedeva nell'avvenire una versione di sé stesso in giacca e camicia, senza cravatta, alla scrivania, intento a disegnare o fare calcoli.
Intravedeva sospirando cospicui assegni e versamenti sul suo conto corrente, strette di mano vigorose, sorrisi smaglianti e pacche sulle spalle dei suoi colleghi e superiori. Vedeva le notti passate a ultimare le consegne per il giorno dopo, la stanchezza gloriosa e vitale dei muscoli che lavorano e solo dopo aver compiuto il loro dovere possono arrendersi, soddisfatti.
Poi vedeva la segretaria carina che gli portava il caffè, si sedeva sul suo tavolo, accavallava le gambe e...Beh, quella poi era un'altra storia...Ad ogni modo, come padre proprio non ci si vedeva.
Il tempo da vivere è già così poco, lo devi strappare con la forza agli anni che avanzano, continuando a schivare e sferrare colpi, su un ring che, lo sai, alla fine ti vedrà comunque andare al tappeto.
Aveva troppe cose da fare, obiettivi da raggiungere, luoghi da visitare. E soprattutto, e questo proprio non è bello da ammettere, lo intristiva l'immagine di suo padre, che aveva sacrificato tutta la sua vita per la famiglia, accatastando affanni e rinunce, ottenendo in cambio solo delusioni, colpi bassi del destino, e, ora, gli acciacchi degli anni, implacabili e puntuali. Anzi, in anticipo, perché, di questo lui era convinto, a suo padre sarebbe di certo toccata una sorte migliore se, in tutto quel tempo che era stata la sua vita, si fosse dedicato un po' di più a sé stesso, si fosse ricordato di prendersi cura di sé. Ma era un uomo d'altra fattura, che aveva cercato a modo suo di rimediare al destino di un padre violento e assente, e il concetto di “cura di sé” gli era così estraneo da suscitargli tutt'al più una risata stizzita. A lui non sarebbe successo. Non avrebbe potuto abdicare con tale rassegnazione e dedicare totalmente la sua vita a qualcun altro, fosse stata una donna o un figlio.
A volte ci facciamo delle promesse, e ci crediamo davvero, eppure il tempo finisce per smentirci e lo fa sghignazzando. Quella promessa si era infranta il giorno in cui aveva incontrato Gloria, jeans strappati, un neo sul labbro e le fossette sulle guance quando sorrideva. O forse, ad essere onesti, non ci aveva pensato quel giorno; lì nella caffetteria aveva solo sentito in sottofondo il suo futuro squarciarsi come la tela di un noto pittore. Non poteva ancora immaginare i nuovi contorni che avrebbe assunto il suo dipinto, i colori che l'avrebbero animato, come le pennellate avrebbero riempito gli spazi vuoti, ma sentiva che il quadro di prima non esisteva più nella sua interezza, che avrebbe potuto esisterne un altro, al quale fino ad allora non aveva pensato. Questa idea di nuove possibilità e di un nuovo futuro si fece sempre più strada in lui, e ogni conversazione con Gloria lo trasformava, ogni sua parola era un tratto nuovo che appariva sul dipinto, con le setole del pennello che solleticavano la tela.
Erano andati a vivere insieme, si erano sposati, tutto procedeva con una velocità e una naturalezza inaspettate, mentre loro fluttuavano e danzavano con le ore. Altrettanto imprevista, arrivò, poi, la malattia. Gloria era sempre stanca e i suoi tentativi di sdrammatizzare e guardare dall'altra parte non facevano che peggiorare le cose: lui non era pronto per quella realtà, quell'urlo nero che ora incombeva sulla tela. In quegli stessi giorni, insieme alla diagnosi della malattia scoprirono anche della bambina. Era una femmina. Sarebbe diventato padre, alla fine.


Ogni Natale era una carezza sul collo con le mani ghiacciate; ogni Natale gli ricordava Gloria in un modo dilaniante e se riusciva a sopravvivere a quel dolore era solo per Sara, sei anni, un cappottino rosa più grande di lei, le fossette sulle guance quando sorrideva.

- Papà, quando facciamo l'albero?

- Presto, tesoro…

- Ma mancano pochissimi giorni a Natale!

- Hai ragione, ma lo sai che sono stato un po' impegnato, con le consegne e il lavoro...Ma domenica lo facciamo, promesso.

- E hai promesso anche di andare insieme a fare la spesa e di prendere il pandoro per i nonni!

- Hai ragione, dobbiamo prendere anche quello...Ci andiamo oggi, ok? E ho una sorpresa per te! Vieni qui, siediti.

La bambina si sedette a gambe incrociate sul pavimento e lui iniziò ad intrecciarle i capelli dorati con la naturalezza di un gesto sempre conosciuto, come se non avesse passato le ultime tre notti su youtube a guardare tutorial, sopportando le voci gracchianti di ragazze americane dall'aria competente e assertiva.

- Noo! - urlò lei raggiante – Hai imparato!

- Non pensavi eh...Mi sottovaluti...Settimana prossima chignon...Lo dico bene, vero? Chignon – disse enfatizzando la sua pronuncia con buffe smorfie.

La risata di Sara saltellò gorgogliante, pura e limpida come un ruscello tra i ciottoli. Farla ridere era ancora così facile… La notte lo tormentava il pensiero di quando, un giorno, quegli occhi così luminosi, vispi e sorridenti sarebbero stati offuscati da un'ombra, di quando le fossette sulle guance si sarebbero nascoste, di quando in casa non si sarebbe più sentita quella risata.
Lui avrebbe fatto di tutto per impedirlo, ma sapeva bene di non avere sulla vita il potere che avrebbe voluto, e che ogni suo tentativo di sopraffazione sul destino l'avrebbe visto perdente, umiliato e affranto, poiché a volte l'unica soluzione possibile è la resa.
Aveva rivestito gli spigoli dei mobili, coperto le prese elettriche, detto addio al gatto, cambiato automobile, cambiato lavoro, scelto la scuola migliore, controllato che mangiasse, che dormisse, che respirasse, in quelle prime notti senza Gloria, quando Sara ancora era così piccola nella culla da restare sveglio tutta la notte a fissarla, per assicurarsi che stesse bene. Eppure non avrebbe potuto controllare e prevedere tutto, non avrebbe potuto difenderla da ogni zona buia in cui avrebbe rischiato di perdersi.




(continua...)



giovedì 19 dicembre 2019

Qualcosa di personale



Ho paura di dimenticarmi. Ho paura che mi dimenticherò di quanto fa male in questo momento, di come la delusione abbia scavato in me come i tarli nel legno, lasciandomi trivellata di colpi, coi vuoti d'aria, gli spifferi ovunque, e questa paura che non ricordavo da un bel po' di tempo.
Vorrei distruggermi, ma l'ho già fatto, e so che poi arriva sempre il momento di ricostruirsi, ed è solo più difficile. Che disdetta essere il proprio peggior nemico, con una mano sventolare la bandierina che fa il tifo per te, e con l'altra nascondere dietro la schiena un coltello che finirai per usare, sferrando il colpo finale. Questo non è un racconto. O forse ti racconto di me, e questo è il racconto di come so rifare sempre lo stesso errore, ogni volta lo stesso, con minime, impercettibili variazioni.
Ti racconto dei sogni che lascio ammuffire nei cassetti, dell'aria malsana che lascio entrare nei miei polmoni, degli antidolorifici dell'abitudine con cui mi avveleno il fegato, del cibo che non riesco a masticare, delle finestre sbarrate, delle porte chiuse a chiave. Ti racconto di tutti quei miraggi nel deserto che mi hanno tenuta viva per un po', quando sentivo i pori della pelle aprirsi e le labbra schiudersi per dissetarsi, e poi, sempre, ricadevo a faccia in giù sulla sabbia.
Ti racconto di come possono essere buie certe notti, quando a tenerti compagnia ci sono solo le tue angosce, il tuo respiro inquieto, il tuo stomaco che si contorce. Ho creduto a un sacco di bugie perché la verità mi dava i brividi. La verità però di notte scintilla, ed è una luce che ferisce gli occhi e scotta la pelle, la verità di notte fa rumore ed è un rumore che ti scuote le ossa e ti fa tremare.


Abbiamo dato troppo potere agli altri, non è vero? Destituite del nostro valore, abbiamo lasciato che gli altri ci dicessero se contiamo qualcosa, in che misura, a che prezzo, in che ruolo, da quale angolazione. Qual è il nostro profilo migliore? E perché dobbiamo mostrare solo quello e odiare e negare tutto il resto? Siamo foto profilo, nickname anonimi, siamo fantasmi, foto sulle tombe di una bacheca che è come un cimitero: tante lapidi tutte uguali.
Vogliamo lasciare un segno eppure non abbiamo niente da dire, solo cose da dimostrare.
Vogliamo condividere eppure siamo divisi, noi in vetrina e gli altri ad applaudire o lanciare pomodori. Io dietro a uno schermo, tu dietro al tuo. Eppure questa vita sottovuoto la giudico male fino a un certo punto, perché non ne saprei vivere un'altra. Mi sento a disagio in entrambi i casi, online e offline, cosa conta, perdo sempre.


Ci avviciniamo a Natale, questo decennio è quasi finito e a me è sembrato una lunga partita a poker in cui non ho fatto altro che bluffare, e non vincere niente. Forse è arrivato il momento di rimescolare le carte, sperare nella prossima mano. Ma le regole bisogna seguirle oppure infrangerle? Io ancora non l'ho capito.




mercoledì 18 dicembre 2019

L'amore ai tempi della soia



Non ci speravo neanche più di innamorarmi. Avevo smesso di stalkerare i ragazzi sui social, smesso di ipotecare futuri con persone che nel mio cuore vivevano in affitto, in nero molto spesso. "L'amore è una bugia perpetrata troppo a lungo", mi dicevo. Poi venne giugno, il matrimonio di Marco; incredibile che anche mio fratello avesse ceduto alla nota illusione. Non ci volevo nemmeno andare, mi tormentava il pensiero dei parenti che come pietre rotolanti mi sarebbero franati tutti addosso con le loro domande inopportune: "E tu, quando ti sposi? Ma ce l'hai il fidanzato? Ma perché non l'hai portato? Ma non sei presbite, vero?". Un'ansia simile stava un gradino sotto a quella che provavo quando mi torturavano con le domande sul cibo. "Vegana?! Ma perché? Non sai cosa ti perdi! Sai cosa ti perdi? Ma il tuo medico cosa dice?".
Mangiare in pubblico era sempre un calvario per me. Così, mi feci forza al momento di sedermi al tavolo del ricevimento, dopotutto sarebbero passate solo quattro o cinque ore prima di poter tornare a casa. "Il menu vegano è per lei, giusto?! - chiese il cameriere con fare un po' spazientito, forse per i trecentoquattro gradi della sala o forse, anche lui, per le mie scelte alimentari. "Sì!"- dicemmo all'unisono. Quella fu la prima di molte altre cene felici e rigorosamente vegane. Assurdo che sia passato già un anno. Stasera cucina lui, per festeggiare l'anniversario e la casa nuova. "Buonasera fanciulla!". "Stai ancora preparando! Avevi detto una cosa semplice…". "Ma è un'occasione speciale!" - dice con un sorriso malizioso, mentre fa a pezzi una zucchina”. Poi un grido. "Oddio, ti sei fatto male?". "No, dai, è solo un graffio...". Peccato che dal taglio sul suo dito esca sangue, e io lo odio proprio il sangue, mi fa pensare agli animali morti ammazzati, che schifo.
Lo scempio di quei macelli, quanti video abbiamo visto, costringendoci a non chiudere gli occhi, perché sono tutti troppo bravi a chiudere gli occhi. "Dai, amore, non fare quella faccia, siediti che è pronto". "Cosa mangiamo di buono?". "Sei impaziente eh...Allora: ravioli ripieni di tofu ed erbette, insalata di sedano rapa e poi...". Il suo sguardo vaga come in cerca delle parole giuste. "Polpette di soia. E per dessert un budino. Vegetale, ovviamente". Arriviamo in fretta al secondo, le polpette di soia. "Buonissime, come le hai fatte?". "Coi fiocchi di soia...Le patate schiacciate, cipolla, carota, sale e pepe. Amalgami tutto e friggi, semplice". "Sono perfette. Ma le tue hanno un colore diverso...Ti sei preso quelle più bruciate al posto mio, vero? Che tenero!". "Sì..."- ridacchia lui nervosamente. "Ma dai, non dovevi. Andiamo a vivere insieme, ormai queste gentilezze da fidanzatini non servono più, fammi assaggiare". "No!" C'è il terrore nei suoi occhi, faccio appena in tempo a vederlo, come un 'ombra che rende il suo sguardo più acceso. Ma ormai è troppo tardi. Ho assaggiato, e ora sto masticando la paura, la deglutisco a fatica, mi sale la nausea. "Ma in queste polpette...C'è carne!" Sgrano gli occhi, soffoco un urlo, mi gira la testa. Non posso credere di essere stata di nuovo vittima di una menzogna, ingannata, tradita. "Ma amore, ti posso spiegare! Solo le mie polpette, le ho preparate a parte, le tue sono di soia, lo giuro!". "E perché tu mangi la carne, adesso? Cos'è questa storia? Da quanto va avanti?". "Sono quasi tre mesi" - dice abbassando lo sguardo. Ma il senso di colpa non gli basterà per farla franca, questa non può proprio passare. 
"Cosa fai? Amore, ma che fai, sei impazzita?!". Solo un graffio. Peccato per tutto quel sangue.  


martedì 17 dicembre 2019

Un altro giro



Aveva poco tempo. Si era alzata tardi quella mattina, per una volta aveva indugiato nella foschia tra sonno e risveglio un po' troppo a lungo, approfittando del tepore del piumone soffice, del profumo delle lenzuola fresche, temendo la giornata che la attendeva, già in piedi come un generale davanti al suo letto. Forza, avanti, marsc'!
La sua agenda era tutta da spuntare, l'avrebbe fatto con la lentezza e il piacere di chi soddisfa una perversione e vuole assaporarne ogni istante: con la penna blu la spunta degli impegni personali, con la penna nera la spunta degli impegni di lavoro, con la rossa quella delle incombenze familiari.
Si sentiva in gabbia, ma, incapace di dire di no, come guidata da un masochismo sottile e compiaciuto, finiva con l'aggiungere ogni giorno nuove sbarre. La sua giornata era fitta di impegni che come rampicanti crescevano e si annodavano attorno al suo corpo fino a tenerla in ostaggio.
Chi avrebbe spezzato quell'incantesimo? Chi l'avrebbe liberata da quella morsa stretta, così dolorosa, soffocante, eppure insospettabilmente piacevole? Riusciamo ancora a riconoscere le nostre prigioni, le trappole che ci separano dalla vita, quando esse diventano, per abitudine, la vita stessa? Quanto può diventare inquinata la nostra ora d'aria se siamo schiavi dell'aria rarefatta della prigione?


Nel periodo di Natale, come sempre, le cose peggioravano. Aveva trangugiato in un sorso la frenesia natalizia, e ora, a metà dicembre, le scorreva nelle vene rinvigorendo ogni parte del suo corpo. Camminava più velocemente, parlava più rapidamente, saltava da un'occupazione a un'altra, sorrideva sempre, seguirla con lo sguardo ti faceva girare la testa. In quel periodo dell'anno diventava come la ballerina di un carillon impazzito, che volteggiava vorticosamente, senza potersi fermare.
Un altro giro, poi un altro ancora, e un altro…
Le feste erano diorami illuminati da luci al neon, le persone maschere sorridenti dagli occhi vuoti, ogni cosa si sovrapponeva e luccicava e scompariva. Fermati, ti prego, fermati!
Avrebbe fatto in tempo a fare tutto, anche quest'anno? Li avrebbe fregati tutti, anche stavolta? Queste erano sfide che la animavano e la deprimevano, riuscivano a tirare fuori il meglio e il peggio di quella sua anima che oscillava tra un'emozione e quella opposta. Volevo solo qualche giorno in più, mi serviva solo un altro po' di tempo! Programmare, organizzare, prevedere, anticipare, immaginare, sognare. Ricordare, rimpiangere, rammaricarsi di una scelta o di una svista, rimproverarsi, non riuscire mai davvero a perdonarsi.
Era capace di dormire quattro ore a notte per alzarsi alle sei e iniziare una giornata perfetta in ogni riga, una giornata da coccarda appuntata al petto, una giornata da influencer.
Ma c'erano anche quelle notti di lacrime, in cui si abbracciava e si cullava fino ad arrendersi stremata al sonno. Costava fatica, tutta quella perfezione che negli anni si era creata a colpi abili di scalpello dal blocco marmoreo della sua vita che detestava. Ogni cosa era artificio, ogni cosa costruzione, frutto di pensieri, ripensamenti, programmi, esperimenti su se stessa: dal suo aspetto curato in ogni dettaglio, ai suoi capelli ramati, ai suoi vestiti, alla sua casa, agli atteggiamenti, alle cose da dire e da non dire mai. Aveva una lista per ogni ambito della sua vita, e ogni sera ripassava ciascuna voce chiedendosi se non fosse necessaria qualche modifica, qualche correzione.


La cena aziendale sarebbe stata la terza uscita di quella settimana, si era alzata tardi, ma avrebbe recuperato e fatto tutto in tempo. Solo un altro po' di tempo.
Doccia, palestra, massaggio, centro commerciale, gruppo whatsapp, inviti, notifiche, telefonate, disdette. Il pranzo si poteva saltare, non c'era tempo. Alle quattordici la parrucchiera.

- Come li vuole oggi? Lisci o mossi?

- Mossi. Delle onde morbide, con phon e spazzola, che partano da qui.

- Come sono belli i suoi capelli...È rossa naturale?

- Certo – rispose sorridendo con malizia alla nuova ragazza che la guardava ammirata.




lunedì 16 dicembre 2019

Caro Peter...



Caro Peter, lo sai come ci si sente.
Ordini per uno e ti sorbisci gli sguardi in tralice. Al cinema ti siedi in fondo sperando che nessuno ti veda, neanche fossi il maniaco con l'impermeabile, ma puntualmente ti trovi di fianco le coppiette in amore protagoniste di un film tutto loro. Nella metro una monade di braccia, gambe, bocche, lingue occupa tre posti a sedere, e non ti rimane che stare in piedi a fissare il vuoto. I pranzi coi parenti sono il tuo personale purgatorio di domande inopportune e inevitabili come i canditi nel panettone:
“Il fidanzatino? Quando ce lo fai conoscere? Come non esiste, possibile? E perché?! E quando ce lo presenti?”. Abbozzi un sorriso e ti iscrivi a kickboxing per sfogare la rabbia repressa, ché di questo passo finisci per diventare il vicino gentile che salutava sempre. A kickboxing, dove la tua migliore amica ha conosciuto l'inseparabile Paolo, tu incontri solo un palestrato gonfiato ad aria compressa fino al cervello, e una volta sbagli persino lezione e finisci nella classe di zumba.
A proposito della tua amica e dell'inseparabile Paolo...Si sposano a giugno. Si sposano tutti a giugno. Perché ormai sei più vicina ai trenta che ai venti, anche se ogni volta che ti chiamano signora ti trasformi in De Niro in Taxi Driver e improvvisi un: “Ehi, dici a me?! Stai parlando con me?!”. Vai a tutti i loro matrimoni, non so se per una forma di masochismo o per una dipendenza dai confetti dai gusti eccentrici. Ti mettono al tavolo dei bambini, perché sei l'unica al di sopra del metro e venti che non è in coppia. Persino Christian, il novenne seduto di fianco a te, si è portato il suo camaleonte Dino, e ogni tanto gli schiocca bacini sulla pelle verdastra che ti fanno andare di traverso pure il risotto allo champagne che era il tuo unico faro nella notte.
È che questo mondo non è fatto per quelli come noi, che amano stare da soli. Ci guardano male, ci escludono, ci discriminano. Le confezioni famiglia al supermercato, gli sconti al cinema, le feste più uno, il lieto fine nei film. Vige questo stordimento collettivo per cui un matrimonio e un paio di pargoli sono la soluzione a tutto, pure al buco dell'ozono; traguardi desiderabili da chiunque, condann...ehm...destini predeterminati. E se tu ti sottrai con discrezione a queste scelte, ti considerano un asceta che gira nudo per i boschi alla ricerca del senso della vita e di qualche bacca di cui sfamarsi. In realtà cerco il senso della vita nelle serie tv e mangio popcorn a cena e gelato a colazione, ma che importa? A chi importa? Se sono tanto felici nella loro famiglia Brady, perché vedono noi come una minaccia? Wendy la chiamerebbero zitella, se avesse deciso di aspettarti e di non figliare. Hai sentito parlare di Verona e di deprimenti congressi? Roba che ti viene voglia di scappare all'Isola che non c'è. A proposito, amico mio, dov'è che era? Seconda stella a destra, e poi dritto fino al mattino?








domenica 15 dicembre 2019

Il fantasma dei Natali passati



Natale 2019

Caro Diario, questo Natale lo faccio. È tanto che ci penso, a volte mi sembra di pensarci da sempre, non ricordo bene come è iniziata e come ha fatto a trascinarsi fino ad ora, questa situazione grottesca. Eppure eccomi qui, con i miei anni imbarazzanti a sbeffeggiarmi mentre fingo di avere tutto sotto controllo, e intanto nascondo le mie paure una dentro l'altra come matrioska. Quelle odiose bambole di legno dipinte mi fissavano dalla mensola nella mia stanza, quando ero piccola, e sorridevano inquietanti, coi pomelli rossi sulle guance e gli occhi spiritati. Ancora sorridono al buio e si prendono gioco di me. Vivo negli incubi, nessuno mi aveva preparato a questo scenario sconfortante, e infatti lo abito con sgomento. Cerco sempre sentieri per uscire dal bosco ma temo che la mia sia una favola senza lieto fine. Questa storia, però, deve finire. Almeno questa. Succederà tutto stasera, ho aspettato anche troppo tempo.


Natale 1988

Caro Diario, stasera sono venuti gli zii e i cugini a mangiare da noi. Adoro quando ci sono tutti. Mamma ha cucinato tutti i miei piatti preferiti, abbiamo riso e scherzato e zio Massimo ci ha fatto anche assaggiare un po' di vino, di nascosto dalla mamma. Non sapeva affatto di uva. Sotto il vischio ho dato un bigliettino a Davide in cui gli dichiaravo il mio amore. Lui l'ha aperto, l'ha letto, l'ha accartocciato e l'ha buttato via. Poi è andato a giocare con i miei fratelli al biliardino. Ho detto che non mi sentivo bene, così sono andata a letto senza aspettare che arrivasse Babbo Natale, tanto ormai lo so che non esiste. Ho pianto fino ad addormentarmi.
 

Natale 1994

Caro Diario, stasera dopo la tradizionale pallosissima cena con gli zii e i cugini al completo, sono andata alla festa di Giulia. Ha una casa stupenda, enorme, ed era addobbata come nei film americani. È venuto anche Davide, naturalmente è stato tutto il tempo a parlare con i suoi amici deficienti e mi ha guardata appena. Sembrava un modello di una pubblicità, appoggiato alla colonna delle scale con una Ceres in mano e l'aria da figo. Come se fino a pochi minuti prima non fosse stato al mio stesso tavolo a fingere di sfilarsi spaghetti dal naso con i miei fratelli! Dio quanto lo odio! Perché non mi ama?!?!?! Cosa devo fare per piacergli?!?! Sarei disposta a fare qualsiasi cosa per piacergli!!!! Meno male che ci sei tu quando voglio sfogarmi…


Natale 1999

Caro Diario, dicono che il mondo debba finire a Capodanno, o qualcosa del genere. Non ho capito bene ma sinceramente ci spero. Stasera sono venuti gli zii e i cugini a mangiare da noi...Davide non c'era, è in montagna Giulia...Te l'avevo detto, vero, che si è fidanzato? Oddio, è un sacco che non ti scrivo, dovrei riprendere a farlo, mi faceva bene sfogarmi un po'...Non che ci sia molto da dire, della mia vita...Spero che si rompa una gamba sciando, guarda...Anzi spero che se la rompano entrambi, così almeno non potranno...Come sono stupida...Sono proprio una bambina, vero? Alla mia età ancora a parlare con un diario come una povera scema, mentre i miei coetanei vanno nelle baite in montagna a giocare ad Heidi e al Nonno!!! Dio perché mi hai fatto così stupida e nemmeno un po' carina, per compensare?
 

Natale 2003

Caro Diario, ho finito di lavorare appena in tempo per arrivare alle nove puntuale alla solita cena di famiglia, con tutti i parenti che mi chiedono se mi sono fidanzata. Davide si è seduto vicino a me, aveva l'aria triste, sai, per quello che è successo con Giulia. La zia dice che ancora non l'ha superata. Abbiamo parlato e mi ha raccontato un po' di retroscena. Ci siamo seduti sul divano mentre tutti tiravano fuori la tombola e la frutta secca, e abbiamo iniziato a bisbigliare fitti, quasi faticavamo a sentirci, con tutto quel chiasso attorno. Poi mi ha preso la mano e ha iniziato a pizzicarmi delicatamente. “Mi sei mancata, mi piace parlare con te...” - mi ha detto a un certo punto. Non ricordavo un Natale così bello da anni.
 

Natale 2008

Caro Diario, stasera non andrò a casa dei miei per festeggiare tutti insieme. Ho saputo che ci sarà anche Davide, quindi non ho intenzione di andarci. Resterò qui con Luna a smezzarci un po' di cibo in scatola. Prima non ho resistito e ho sbirciato su Facebook. Davide posta pochissimo, Giulia in compenso pubblica con la frequenza di un servizio di breaking news. Probabilmente potrò seguire i loro baci sotto al vischio e la loro cartella per due della tombola in diretta dal mio divano. Il Natale amplifica tutto e ti ricorda quanto la tua vita faccia schifo, perché quest'anno la mia vita fa davvero schifo.
 

Natale 2015

Caro Diario, stasera io e Davide abbiamo invitato i nostri genitori e il resto della famiglia a casa nostra. Sarà il primo Natale che passiamo qui. Sono un po' nervosa perché ho dovuto preparare io la cena e, sai, non sono esattamente Julia Child. So già che mamma avrà da ridire su tutto, ma che importa... Davide ha promesso di starmi vicino e so già che lo farà e mi pizzicherà delicatamente sulla mano e sul braccio, come fa sempre per calmarmi. Natale amplifica tutto e ti ricorda quanto la tua vita sia meravigliosa. Vorrei che le cose restassero così per sempre.


Natale 2019

Caro Diario, sono passati due anni da quando io e Davide ci siamo lasciati. Se non lo faccio ora non lo farò più e continuerò ad essere legata al suo fantasma e oscurata dalla sua ombra. Sono arrivata al limite, le illusioni sono sostanze allucinogene che non potranno mai aiutarmi davvero, solo stordirmi e farmi perdere altro tempo, altri anni. Devo farla finita. Devo eliminarlo.









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sabato 14 dicembre 2019

La vecchia Mabel



Fatti di cronaca neri e viscidi come il petrolio, notizie dell'ultima notte, la radio che gracida, la televisione che strilla, i giornali che non si vendono, i promemoria che si dimenticano.
Le solite facce deformate e le solite voci distorte e il loro odore che ti resta addosso. Case sporche, vestiti strappati e letti da rifare. Ho comprato un diario nuovo per iniziare l'anno in bianco, ho un taccuino di appunti senza idee, la testa vuota, il cuore vuoto. Per gli indiani la sede della coscienza era il cuore, non la testa.
Parole, frasi, canzoni, come faceva quella canzone? Era un motivetto allegro, eppure a me metteva tristezza. “Ti piacerà, tesoro, ti piacerà, vedrai”. Le mie emozioni pulsano per trovare una forma e invece si incarnano in sintomi e le ossa fanno male, le gambe tremolano, ho i nervi tesi e i muscoli molli. Sono stanca delle torri di parole che costruisco per arrivare al cielo, quando poi mi affaccio sempre sul baratro. Sono stanca delle storie che intesso per rivestire di fascino e mistero questa vita infranta e squallida. Non mi interessa più piacere, intrattenere, addirittura sedurre.
Che importanza ha la seduzione quando lo sguardo che ti tiene in vita resta su di te solo per un istante? E ogni volta ricominciare il giro di giostra, imparare le battute, diventare la bambola di pezza di qualcun altro. Sono mostruosa e rotta, non le vedi le cuciture slabbrate, i punti della spillatrice che mi tengono insieme i pezzi, gli organi che fanno a fatica il loro lavoro? Dicembre era una promessa di felicità, e si è trasformato in una maledizione d'odio. Ho cercato vie di fuga tutta la vita, mi sono rannicchiata negli angoli, nessuno può metterti in un angolo, ho atteso, immaginato e sperato. Ma è sempre lo stesso incubo da cui non riesco a svegliarmi.


Mabel era un po' brilla quella notte, scriveva con la sinistra perché la mano destra era fasciata e storpia dopo la caduta, e questo rendeva la sua calligrafia spezzata e tremolante come la sua voce.

- Ehi, non lo vedi che il mio bicchiere è vuoto! - gridò al barista, sollevando per un attimo la penna nera dal tovagliolino su cui stava scrivendo freneticamente.

- Tra poco chiudiamo – la ammonì il barista mentre le versava l'ennesimo bicchiere di ambra liquida.

- Sono solo le tre...Vuoi farmi credere che voi di solito chiudete alle tre?

Mabel si appoggiò sul bancone con intento lascivo, ma in quelle condizioni appariva solo goffa.
I suoi occhi liquidi però luccicavano così tanto da incantarti; l'avresti seguita ovunque, la vecchia Mabel, con quelle gambe sinuose capaci di flettersi in cento modi diversi, le mani svelte, gli occhioni languidi e le ciglia come ventagli di pizzo nero. Aveva fatto da poco trent'anni e sentiva di averne almeno cento. Aveva conosciuto tutti i tipi della città e molti delle città vicine, aveva ascoltato le loro storie e aveva creduto a tutto, anche a chi diceva di amarla. Ogni sera una vita diversa, ogni sera la stessa vita. Un copione esausto che si era stancata di recitare.

- Ehi, Mabel, era un po' che non ti si vedeva da queste parti...Dove lo passi il Natale?

- Lo passo con te Freddie, se vuoi lo passo con te...Mi vuoi, vero?

- Certo! Ma prima devo chiedere a mia moglie! - scoppiò in una grassa risata.

Rise anche lei, e continuò a scrivere sul suo tovagliolino ora umido.


Alle quattro di mattina l'ultima ombra solitaria uscì dal bar in una scia di fumo. Mabel si era addormentata sul bancone, gli occhi pesti e il mascara colato, la parrucca nera leggermente spostata, un sorriso macabro sul volto.

“Sembrava che dormisse! Ero convinto che stesse dormendo!”, avrebbe detto il barista alla polizia, poco dopo.

La vecchia Mabel finalmente si era svegliata.






venerdì 13 dicembre 2019

Aspettando Natale


- A casa mia l'albero si fa l'otto dicembre, puntuali come un orologio svedese – disse lo Chef, così soprannominato perché, beh, di solito era lui a cucinare lì dentro. 

- Guarda che si dice svizzero, idiota! Puntuale come un orologio svizzero! - ribatté Nanni dalla branda in fondo.

- Ci sono stato in Svizzera, quando avevo quindici, sedici anni...Mio cugino si è trasferito lì per lavoro, non è male, se ti ci abitui...Certo, rispetto a qui... - si inserì Mario ricordando quel mese della sua vita passato nel Canton Ticino, a fingere di lavorare e a guardare schifezze in tv.

- Noi invece l'albero non l'abbiamo mai fatto - rispose il Duca con un sorriso sferzante e schioccando le labbra come faceva sempre.


Era il primo Natale della sua vita che lo Chef avrebbe passato lì dentro, e ogni mattina di dicembre si alzava col pensiero fisso dei suoi familiari a casa, un pensiero acuminato che gli si piantava nel petto e non lo abbandonava per tutto il giorno. Solo al momento del pranzo e della cena conosceva un po' di tregua, quando era impegnato nel mettere insieme qualche pietanza per sé e per quelli del suo giro. Per il resto del tempo parlava dei suoi e pensava a quando li avrebbe rivisti: i figli piccoli, la paziente moglie, descritti come la sacra famiglia innocente, un'icona evangelica a cui mostrare devozione, così come Mario faceva con i santini attaccati al muro con il nastro adesivo. Raramente Mario parlava della figlia ventenne che lo aspettava fuori, e se lo faceva le riservava epiteti ben poco rassicuranti, che coinvolgevano anche il suo fidanzato scansafatiche e il figlio che lei portava in grembo. Se però qualcuno degli altri, di solito Nanni, osava rivolgere anche solo una parola sboccata alla figlia e alla sua famigliola illegittima, ecco che Mario si trasformava, e diventava violento e protettivo nei confronti di Rosanna, riscoprendone persino il nome di battesimo.
Nanni non aveva famiglia fuori, solo qualche amico ologramma che gli appariva davanti in cerca di soldi o di droga, per poi sparire per mesi e anni. Ritornavano sempre, come fantasmi nelle case che hanno abitato da vivi, pronti a succhiare energia da chi sembra star meglio. Ogni volta che ne rivedeva uno, per un po' gli pareva irriconoscibile, sempre più segnato nel volto e nello spirito, sempre più consunto dal tempo e dal veleno, logoro e disperato per i tentativi smaniosi di sopravvivere. Nanni si guardava allo specchio e pensava di non essere affatto come loro, di aver avuto qualcosa in comune con quei ragazzi, forse, una volta, ma di essere poi riuscito a stare in piedi meglio degli altri, ad adattarsi con maggiore intelligenza a quella semi-vita tante volte così simile alla morte. Pochi sanno camminare in punta di piedi sul limbo senza scivolare, lui lo faceva come un equilibrista con la faccia disegnata di bianco e una stella nera sull'occhio. E rideva sempre, quando vedeva gli altri cadere; ridere gli serviva per restare in equilibro su quel filo sottile e per riempire quel vuoto nel petto che sentiva se solo si azzardava a pensare che quelli, un tempo, erano stati davvero suoi amici. Lo Chef, Nicola il suo vero nome, si era trovato coinvolto in qualcosa che non aveva mai capito fino in fondo, era lì vittima della sua ingenuità e persino del suo buon cuore. Mario si era fatto convincere da quella masnada di conterranei con cui aveva legato per sopperire al freddo e alla desolazione di una vita senza prospettive. Il Nanni, invece, sentiva in qualche modo di averla scelta, quella vita, o di averla avuta assegnata alla nascita, e di indossarla meglio degli altri.
Poi c'era il Duca. Il Duca si distingueva dagli altri per tre cose: il suo affettato accento milanese, costruito più di quanto gli altri potessero immaginare, la cura maniacale che aveva per i suoi capelli, ancora folti e fluenti nonostante avesse superato i quaranta, e i vestiti eccentrici che indossava, che stonavano incredibilmente in quel contesto grigio e sdrucito. Il Duca era entrato e uscito una decina di volte quell'anno, e si era ripromesso che non avrebbe passato il Natale lì. Per questo sfruttava ogni momento per parlare con l'avvocato, e quando non era possibile ciondolava avanti e indietro meditabondo, soppesando soluzioni e stratagemmi, oppure si abbandonava su una sedia, gambe incrociate, reggendosi la testa col pugno chiuso, ascoltando distrattamente i discorsi degli altri e intanto rimuginando sul suo futuro.


A Natale mancavano meno di due settimane, per le strade già cominciavi a sentirne l'aria frizzante la mattina, la nebbia bluastra nel tardo pomeriggio, come in un quadro di Chagall, il fermento della gente che brulicava sui marciapiedi, la sensazione esaltante di attesa.
C'erano così tante cose da preparare... Il cenone, le luci, l'albero, gli addobbi, i regali, il presepe,
i coltelli, il gas, il nastro adesivo, i biglietti per la Svizzera, lo specchio, l'avvocato.
I quattro si guardarono nervosi, chiedendosi se avrebbero fatto in tempo.





giovedì 12 dicembre 2019

Terapia e croccantini


Questo dicembre ho conosciuto un sacco di persone nuove. C'è la signora Moretti, che mette sempre un profumo alla rosa uguale a quello che usava la cara Dalila, prima che lo lasciasse. Mi piaceva Dalila, era elegante ma non altezzosa; sapevo di non andarle a genio, eppure riusciva sempre a essere gentile con me. E io dico che se proprio devi avere a che fare con qualcuno che non gradisci, tanto vale fare buon viso a cattivo gioco. Lei in questo era una vera maestra, sublime, sul serio. Sfoderava uno di quei sorrisi brillanti accompagnati da tenere fossette, avrebbe convinto chiunque. Infatti lui ci cascava sempre, quando lei gli sorrideva.
Martedì è venuta la signora Alessi, anche lei una novità del mese: è entrata tutta infreddolita nella sua pelliccia di visone, e questo dettaglio me l'ha resa subito sgradita. Sarò sincera, non amo chi si riscalda indossando animali morti. Non ho ancora capito che tipo di profumo indossi, sa di benzina e castagne ammuffite. Credo sia un po' antipatica anche a lui, ma, sapete, lui non può certo darlo a vedere. Non che sia bravo a fingere come la cara Dalila, però vi è costretto, fa del suo meglio.
Il signor Alfieri invece era un po' che non lo vedevo, è arrivato ieri tutto trafelato con una risma di giornali sotto braccio e carte e fogli che gli spuntavano dalla borsa sgualcita. Quell'uomo potrebbe essere il protagonista di una striscia comica a fumetti, un personaggio la cui principale occupazione sarebbe scivolare sulle bucce di banana e dimenticare il cappello nei posti più strani. Credo abbia anche un po' paura di me, che cosa singolare! Infatti mi evita e mi sta alla larga il più possibile, tanto che lui a volte, notando quella persistente tensione, è costretto a dirmi di lasciare la stanza.
Io lo faccio senza farmelo dire due volte, perché non ho certo intenzione di traumatizzare il povero signor Alfieri, uno al quale potrebbe essere fatale persino la sua stessa ombra.
Giovedì sembrava una giornata tranquilla, di quelle da passare sonnecchiando sul divano, al calduccio, mentre fuori avanza dicembre con la sua patina di freddo pungente e allegro.
Poi, proprio nel mezzo del mio agognato sonnellino, la porta si è aperta di colpo. Sbam! Un suono secco e improvviso che mi ha fatto saltare sulla poltrona. Era una ragazza con i capelli lunghi, magrolina, sembrava quasi una bambina. Portava un enorme zaino su una spalla, aveva gli occhi grandi e spaventati e profumava di biscotti.
“Sta cercando qualcuno?”. “Sì, vorrei parlare con il dottore, c'è, vero?”. “Ha un appuntamento?”. “No, no, non ce l'ho...” ha detto lei a bassa voce, vagando con lo sguardo attorno alla stanza.
“La faccio attendere un momento, signorina, intanto si accomodi”. Era davvero carina, ma sembrava essersi appena svegliata da un sogno, o forse, da un incubo, in cui ancora la sua mente vagava, facendola apparire distante e sperduta. Ho sperato davvero che lui potesse riceverla, perché di solito non lo fa, senza appuntamento. Su queste cose è un po' rigido, purtroppo, e io non ho certo voce in capitolo. In quel momento lui era impegnato con la Vasari, che stava di nuovo parlando del suo ex fidanzato e di come l'aveva lasciata da un giorno all'altro con un sms.
“Incredibile, dottore, non riesco a crederci...Lei riesce a crederci? Dopo sei mesi! So che per lei, forse, sei mesi non sono tanti, ma, sa, oggi, per la nostra generazione, con tutte queste relazioni usa e getta, i social, l'età dell'amore liquido, no? Non è vero? La pensa come me?”.
Lui ha intrecciato le mani davanti a sé come in preghiera, ha sollevato gli indici uniti e ha piegato la testa in avanti, ma non ha detto niente. Non dice quasi mai niente. A volte annuisce, a volte incrocia le gambe, quello non è un buon segno, raramente scuote la testa. Ma soprattutto intreccia le dita e appoggia il naso sugli indici alzati e giunti. Ancora, dopo tanti anni, non ho ben capito cosa significa, o meglio, potrebbe voler significare tantissime cose diverse, a seconda dei casi e delle persone, che per lui è un po' la stessa cosa.
Giulia Vasari scuoteva la testa e la massa di ricci mentre si asciugava le prime lacrime della giornata, sapendo che non sarebbero state di certo le ultime. “Io ci tenevo davvero a lui, non so se lei può capirmi. Mi capisce? In facoltà sono tutti così odiosi, viziati, insopportabili. Mi piaceva che lui fosse diverso da tutti quelli che conosco, che venisse da un altro mondo...Non troverò mai nessun altro come lui, nessuno, ci rinuncio...E il mese prossimo faccio ventisei anni, capisce?! Ventisei! Ventisei sono troppi per stare da sola.”
Lui mi ha cercato con lo sguardo, come fa quando è stanco di sentire ripetere la stessa solfa per la centesima volta, e si pente di non aver seguito il consiglio di suo padre che lo voleva veterinario come lui. Gli animali gli avrebbero creato sicuramente meno problemi, pensa. Più istintivi, guidati dal fiuto, sentono le cose sulla pelle, non si lasciano ingannare dalle storie seducenti della mente, a volte così convincenti da essere letali. Se solo i suoi pazienti si ricordassero della loro natura istintuale, primitiva, selvaggia, di quella voce che dentro di loro è un richiamo e li condurrebbe sempre al posto giusto, come il fiuto dei cani da tartufo. E invece fanno di tutto per non ascoltarla, per soffocarla, per metterla a tacere e sovrastarla con le voci degli altri, con i rumori dell'esterno.
Lei ci prova a farsi sentire, a guidarli, ma loro le mettono il bavaglio, non la liberano, e vivono nella gabbia dei loro pensieri e dei loro ragionamenti perfetti ai quali sfugge sempre qualcosa. Incastrati nelle loro prigioni come animali in cattività. E la libertà che poi cercano spasmodicamente ovunque tranne che in loro stessi ha sempre un prezzo.
“Sono ottanta euro, cara”.
A dicembre ha alzato i prezzi, eppure a me riserva sempre lo stesso schifo. Sono proprio stanca dei suoi complimenti e delle sue carezze in pubblico. Penso che se potesse farebbe sedere anche me su quella poltrona reclinabile, a fissare la foto in bianco e nero di quel tizio con la barba e il sigaro che ha sistemato sulla libreria. Ma nelle sedute pare sia richiesta la sincerità assoluta, almeno da parte di chi si siede lì, e io non so se avrei il coraggio di essere davvero sincera con lui. Perché in fondo gli sono anche affezionata, è tanto che sono qui, ho visto andar via la sua prima moglie e poi anche la seconda, la cara Dalila, più un paio di fidanzate durate poco. Ero qui quando ha ricevuto quella orribile telefonata in cui gli dicevano che la sua mamma era morta. Non so se avrei la forza di dirgli in faccia quello che penso sul serio di lui. O meglio, non proprio in faccia, perché non vuole che i suoi pazienti lo guardino durante la seduta, chiede sempre di guardare dritto davanti a loro la foto in bianco nero incorniciata. Però, insomma, avete capito.

“Mi scusi se la disturbo mentre è in seduta, dottore, ma c'è una ragazza di là che vorrebbe vederla. Non ha l'appuntamento, ma ha un'aria un po' strana, ad essere sinceri...Sembra piuttosto spaventata, turbata...”. “Non ricevo senza appuntamento, come lei sa”. “Sì, certo, dottore, ma pensavo che potesse fare un'eccezione...”. A quel punto lui si è allontanato dalla Vasari e sibilando ha detto: “Non ho costruito la mia carriera facendo eccezioni, non si arriva da nessuna parte, con le eccezioni. Le dica di prendere un appuntamento”. È tornato a sedersi per ultimare la sua seduta con Giulia, ed è negli ultimi dieci minuti, di solito, che si azzarda a parlare: “Allora, mi dica, lei che animale pensa di essere?”. Giulia l'ha guardato con gli occhi carichi di stupore e ha sollevato il sopracciglio. “Mi scusi, come?” . “Chiuda gli occhi, se lei fosse un animale, che animale sarebbe? Non è una domanda difficile”. “Mah, sinceramente, io...Non ci ho mai pensato...Veramente...Volevo sapere da lei se dovrei mandare un altro messaggio a Luca per sapere perché mi ha lasciato così, di punto in bianco, oppure se sarebbe meglio chiamarlo, o non chiamarlo affatto, dato che da due settimane ormai ignora le mie telefonate...E poi vorrei avere qualche consiglio per l'università, sa, le dicevo che faccio fatica a concentrarmi, e temo davvero di non farcela con questi ultimi esami, sto soffrendo moltissimo, la notte dormo poco...”. “Quale animale!” ha sbottato lui alzando la voce.
Lei si è irrigidita, e ho visto che tratteneva le lacrime. “Forse...Forse un cerbiatto...?” ha bisbigliato con voce tremante. “Un cerbiatto” ha ripetuto lui accomodandosi in un sorriso. “È un bell'animale...Tenero, dolce, con quegli occhioni che osservano tutto...Ma lei è un cerbiatto che fugge, che si dimena, perché è selvaggio e non vuole farsi domare...E secondo lei io che animale sono?”. Ho guardato con infinita compassione la cara Giulia, così smarrita, mentre incrociava le braccia al petto, e abbassava lo sguardo. “Io...Davvero...Non saprei...”. “Provi!”. “Forse un furetto...” disse lei, pensando ai suoi occhietti piccoli e neri, al suo naso insolente, ai suoi baffi. “Ahhh...Un furetto, certo, mi piace...Perché è un animale curioso, che va a scavare nella mente delle persone...Va a infilarsi anche negli angoli e negli anfratti in cui non dovrebbe andare...È fastidioso, lei mi trova fastidioso?”.
Giulia ha deglutito e stavolta è stata lei a non dire niente. “È finita la nostra ora” ha sentenziato lui dopo un rapido sguardo all'orologio. “Prima di andare posso chiederle se...”. “La prossima volta! Arrivederci”.
Giulia è uscita dalla porta con tutti i suoi dubbi. Lui si è acceso il sigaro e mi ha chiamato nella stanza. “Vieni qui, Neve, fatti accarezzare, il mio bel cagnolone!”. Ho scodinzolato un po', provando sollievo al pensiero che, perlomeno, a me non avrebbe mai chiesto: “Che animale pensi di essere?”.