domenica 31 ottobre 2021

24 ore



Sapeva che lei finiva di lavorare alle diciotto, tornava a casa a piedi e di solito arrivava sotto al portone verso le diciotto e trenta. Da lì erano dieci minuti a piedi. Dieci minuti e l'avrebbe raggiunta, si sarebbe fermato sotto il suo appartamento, avrebbe fissato per un po' la luce accesa dalla finestra, incerto se continuare col piano, oppure lasciar perdere e tornare indietro, scomparire nel buio come un'ombra vigliacca. Lei dopotutto non l'avrebbe mai saputo. Però lui si sarebbe pentito, forse, di quel coraggio sequestrato dalla paura, e, una volta al sicuro, a casa, avrebbe fissato il soffitto in cerca di assoluzione. Il rimpianto, però, lo avrebbe stretto alla gola. Tante volte, in passato, avrebbe voluto fare cose che poi non aveva fatto: le aveva lasciate decantare per giorni nella sua mente, cullandole e nutrendole con cura materna, sognando per loro e per sé stesso una realizzazione che poi, puntualmente, non avveniva.        Il tempo era passato, i progetti si erano arrugginiti e i sogni avevano preso polvere ed erano passati di moda, ritirarli fuori dai cassetti gli procurava soltanto vergogna. Quando si rendeva conto di tutto questo, di tutto il tempo perso e dei desideri infranti, si limitava a mandar giù il rimorso e ad alzare le spalle. Non è mai troppo tardi, finché un giorno, all'improvviso, ti accorgi che è proprio tardi, e non puoi farci più niente. Stavolta, però, era diverso. L'occasione era di quelle ghiotte e imprevedibili che capitano una volta ogni tanto anche alle persone normali, anche a quelli come lui.                               Lei era una donna di Modigliani dal collo lungo e gli occhi un po' persi nel vuoto; il suo aspetto diafano ed elegante, e quell'aria sperduta di chi è capitata lì per caso, tanto da essere quasi irreale e fuori posto, lo affascinavano fino al punto di ammaliarlo. Quando la vedeva camminare, i rumori della strada si facevano ovattati, e tutti i suoi sensi si espandevano per accogliere la presenza di lei e nutrirsene completamente. Sentiva amplificato il rumore dei suoi passi sulla strada battuta, i tacchi che lentamente toccavano il cemento, rintocchi ripetuti che scandivano il suo piacere. Lei indossava spesso vestiti e gonne larghe, e il lieve fruscio della stoffa che ondeggiava ai suoi passi lo incantava. Indossava un profumo che sapeva di biscotti alla vaniglia e latte caldo al miele. Portava orecchini grandi a forma di cerchio che luccicavano febbrilmente al sole e rallegravano anche le giornate più cupe. Lui assorbiva tutto questo, poi chiudeva gli occhi e immaginava di avvicinarsi, fermarla, aiutarla con le buste della spesa, chiederle l'ora: tutte azioni che sembravano semplici quando la mente le snocciolava, e poi si scontravano irrimediabilmente con la realtà che sovrasta e annienta. Non gli restava che osservarla, da lontano, sapendo di non poterla toccare, di non poterle parlare.


Si fermò a comprare un mazzo di rose rosse. Una signora impellicciata di fianco a lui stava scegliendo un bouquet per una ricorrenza triste, parlava con la fioraia e ogni tanto lanciava uno sguardo diffidente verso di lui, mentre il barboncino color caffellatte che portava al guinzaglio lo fissava senza sosta e gli abbaiava contro.                                                                                                                                           – Cosa si scrive in questi casi? Condoglianze, soltanto? – chiese la signora impellicciata con un tocco di sdegno, come se alle noiose faccende da sbrigare ora si fosse aggiunta pure questa seccatura della morte, magari senza nemmeno dare il giusto preavviso.                                                                              – Beh, signora, dipende. È in confidenza con queste persone? – disse la fioraia.                                        – Guardi, non sono signora ma signorina, grazie a Dio non mi sono mai dovuta sposare per avere quello che mi serviva. E comunque, sa, son persone che conosco, ma così, come se ne conoscono tante... –.      In un gesto infantile e protettivo, lui coprì il cartoncino su cui stava tentando di scrivere un messaggio per la sua ragazza misteriosa. Questo naturalmente non fece che accrescere l'interesse della signora impellicciata, la quale stese il collo inutilmente, e poi alzò gli occhi al cielo rinunciando. Il cagnolino si era intestardito a rifarsi i denti su una di quelle spugne che usano i fiorai, e impunito stava sporcando tutto attorno. La fioraia invece ripuliva il bancone da foglie e felci avanzate dall'ultima composizione, pacata e assorta nel suo rito consueto, prestando solo una minima, inevitabile parte della sua attenzione ai clienti e agli stralci di vita, amore e morte che portavano con sé.                                                            – Guardi, io scrivo condoglianze, tanto in questi casi non si sa mai cosa fare – alzò le spalle e poi si piegò di scatto sul bancone brandendo la sua stilografica.                                                                          – Può scrivere: "Sentite condoglianze, un caro abbraccio". O anche: "Vi sono vicina in questo dolore", dipende –. La signora impellicciata si fermò, chiuse le labbra in una smorfia e soppesò per qualche istante quelle parole. – No, è meglio un semplice condoglianze, decisamente – .                                  Lui avrebbe voluto inserirsi nella conversazione e chiedere: “E io cosa scrivo? Cosa si scrive a una ragazza con cui non hai mai parlato, una che vedi ogni giorno ma che non ti ha mai visto? Cosa si scrive per farsi notare e non passare per pazzo?” Forse era stata tutta una pessima idea, una di quelle che la notte sembrano luminose e rivoluzionarie abbastanza da farti addormentare con il sorriso, ma poi la mattina al risveglio, alla luce del sole, sbiadiscono. Stava per strappare il biglietto, non se ne sarebbe fatto niente, avrebbe continuato a guardarla da lontano e a sognare amori impossibili ed eterni.            La signora impellicciata sbuffò vistosamente, tale era stata la fatica di scegliere i fiori e il messaggio. O forse sbuffava perché non ne poteva più di lui, della sua indecisione? Lui si affrettò a scrivere qualche parola qualunque, purché potesse uscire da quel negozio e liberarsi da tutta quella pressione. Il cagnolino ai suoi piedi aveva ricominciato ad abbaiargli contro e ora cercava di rifarsi i denti sull'orlo dei suoi pantaloni.


Fuori dal negozio, l'aria di fine ottobre era pungente e lo invase il sollievo di un'azione coraggiosa portata a termine, quel sollievo di quando l'ansia ti abbandona, lascia il corpo dal centro verso le estremità, e improvvisamente ti senti più leggero e provi quasi un senso di piacevole vertigine, una debolezza eccitante, e hai di nuovo fame. Era strano per lui sentire tutto questo, sentire il suo corpo, sentirsi vivo. Di fianco alla fioraia, si stagliava, provvidenziale, una pasticceria, così decise di fare una cosa che non faceva mai, un'altra di quelle che gli erano vietate, impossibili: entrò nella pasticceria e comprò un vassoio intero di pasticcini e biscotti. Appena fuori, si sedette sul muretto freddo e scartò con cura il pacchetto di carta. Sembravano piccole sculture geometriche, perfette e invitanti. Estrasse dal mucchio un bignè dorato ricoperto di glassa al cioccolato. Lo guardò, fece un sospiro di sollievo e poi lo portò alla bocca. Il cioccolato si sciolse sul palato, in un connubio di amaro e dolce che lui avrebbe voluto trattenere per sempre. Richiuse la carta con attenzione sui pasticcini, cercando di non schiacciarli, si alzò e si rimise in cammino.


Erano le diciotto e un quarto. Tra quindici minuti lei sarebbe arrivata a casa. Fermarla davanti al portone gli sembrava troppo simile a un agguato. Avrebbe aspettato che lei salisse nell'appartamento, e quella luce che aveva visto accendersi mille volte sarebbe stata il suo segnale. Le ventiquattro ore che gli erano state date si stavano già esaurendo. Se anche le cose fossero andate bene, avrebbe avuto solo poche ore da vivere con lei, e poi, a mezzanotte, si sarebbe dissolto e avrebbe dovuto dire addio di nuovo al suo corpo, ai suoi sensi, a tutte le possibilità di quella vita mai vissuta, o vissuta, anche prima, da fantasma. C'era anche un'altra possibilità. Gliel'aveva suggerita uno degli ultimi arrivati, uno che anche in vita era famoso per certe iniziative sinistre, che aveva il coraggio non solo di pensare, ma anche di realizzare. – Tanto prima o poi succederà comunque – gli aveva detto la notte prima, mentre lui si preparava a ritornare – Ok, è giovane, ma cosa cambia? Donne giovani muoiono continuamente. Gli incidenti capitano, sai? – . Un brivido lo aveva scosso, ascoltando quelle parole dette con tanta naturalezza. – Amico, la vita è uno schifo, l'hai visto anche tu, no? Cerca almeno di prendere qualcosa anche per te, finché puoi. Così non sareste costretti a separarvi – .                                                          Perché ora stava ripensando a quelle parole agghiaccianti? Il fatto che gli tornassero in mente, che non fosse riuscito a cancellarle nel momento stesso in cui le aveva ascoltate, lo turbò profondamente.        Un passo dopo l'altro, era arrivato sotto casa sua. Le luci erano spente. C'era ancora un po' di tempo. Si sistemò la cravatta, il nodo malconcio gli ricordava che erano passati tre anni dall'ultima volta che ne aveva messa una. Si passò una mano tra i capelli, una, due, tre volte, dispiacendosi di non avere a portata di mano uno specchio, per una volta che poteva servirgli. Poi iniziò a ripassare mentalmente le parole da dire, senza accorgersene si ritrovò a bisbigliarle, mentre percorreva avanti e indietro il marciapiede sotto l'appartamento. Ripeteva anche le parole che avrebbe detto lei, nella migliore e nella peggiore delle ipotesi; aveva pensato anche a quelle, come se avesse potuto decidere e controllare tutto della sua fantasia casualmente incarnata in un corpo, reale solo nella sua mente, viva solo nei suoi sogni. Sistemò con tocchi lievi le rose, il nastro che le stringeva, il pugnale che le accompagnava.






domenica 5 settembre 2021

Un nuovo inizio



Ogni fine è un inizio, bisogna solo scegliere dove guardare.



Anna guarda settembre dalla finestra. Gli alberi danzano un ritmo lento, da uno spiraglio s'intrufola l'aria che sa di inizi, pagine di libri nuovi, biancheria pulita. Il vento gentile muove i poster appesi alle pareti cinque anni prima, e quelli scricchiolano appena, tremano al pensiero che forse, presto, verranno destituiti. Anna sospira. La sua camera le mancherà. A volte è stata una prigione, a volte un rifugio, ma ora le appare solo così confortante, i suoi contorni così definiti, gli angoli nascosti a lei noti, i colori e le forme si abbinano in un'armonia inedita. Dalla finestra aperta adesso arrivano le voci dei vicini: ci sono Tiziana e Francesco che come sempre litigano, in dialetto; c'è la ragazzina del piano di sotto che parla al telefono con l'amica e riferisce di conversazioni e chat e luimihascritto e ioglihoscritto; c'è Tina, che accarezza il suo gatto rosso e annaffia le sue rose, e a volte ha lo sguardo perso nel vuoto, a volte invece il sorriso più dolce del mondo. 
Le valigie sono pronte, pesano troppo, e per chiuderle si sono dovuti impegnare in tre. Ora aspettano, in corridoio, che faccia mattina. Ma prima c'è la sera, e la notte, da attraversare. A cena non mangia niente, scansa le domande di sua madre sbuffando, evita lo sguardo di suo padre e i suoi occhi rossi.
La notte invece la passa a far da sentinella ai suoi pensieri, ai dubbi, alle paure. S'insinua la tentazione di lasciare stare tutto, alzarsi, la mattina dopo, andare in cucina e annunciare: "Ho cambiato idea, non parto più, resto qui". Potrebbe farlo davvero. Dopotutto chi ha detto che un cambiamento ha valore solo se è radicale? Ci sono i sogni moderati, le ambizioni modeste, gli obiettivi vicini, e anche quelli possono renderti felice, anche quelli possono bastarti. Per un attimo quel pensiero la rincuora, è ancora tutto possibile: tirarsi indietro, rinunciare, scappare, salvarsi, condannarsi, pentirsi. 
Chiude gli occhi, si addormenta, e si vede ancora lì, cinque anni dopo, a dormire nella sua stanza dall'armonia perfetta, con gli stessi poster appesi alle pareti anche se un po' ingialliti, e le cose tutte ferme al loro posto anche se appesantite da uno strato di polvere. Le stagioni sono passate davanti alla sua finestra. Tiziana e Francesco hanno continuato a litigare fino a quando Francesco non si è ammalato, e lei ha smesso di sgridarlo in dialetto e ha cominciato a parlargli in italiano. Tina ha continuato ad annaffiare le rose e a coccolare il suo gatto, ma il suo sguardo è ogni giorno più assente. La ragazza del piano di sotto sta facendo le valigie, si sta preparando per andare a studiare a Milano.
E poi ci sono sua madre e suo padre, che non si sanno spiegare come sia potuto accadere e non fanno più domande. La casa è abitata da un torpore che non ha più niente a che vedere con la calma, piuttosto con l'angoscia e il vuoto. Abitare quel vuoto, conviverci, è la sua principale occupazione. Così lo riempie di tutte le cose che trova: libri, film, canzoni, ragazzi, cibo, sentendo addosso l'indolenza e il peso di una domenica senza fine. 
Anna si rigira nel letto, le lenzuola la avvolgono in una spirale sempre più stretta. Riesce a vedersi nitidamente, mentre stende i panni al balcone che dà sul cortile dove ha imparato prima a camminare, poi ad andare in bicicletta, e infine a parcheggiare la macchina. Si vede mentre si siede a tavola a pranzo e a cena con i suoi, spettatrice di dolorosi silenzi, o di liti aspre e interminabili: gli occhi seguono il match fino ad arrendersi stanchi a fissare il piatto. "Non ho fame". "Perché non mangi? Anna, devi mangiare!". Qualche volta è felice, perché la tristezza trova il modo di mascherarsi, e Anna manda giù pillole dorate che per qualche istante sono dolci da sciogliere sulla lingua. 
A un certo punto, però, le distrazioni iniziano a scarseggiare, ci vogliono dosi sempre più elevate di emozioni per riuscire a staccarla dalla realtà; gli amici e i ragazzi si disperdono come fanno le immagini riflesse su uno specchio d'acqua. 
Anna vede la ragazza del piano di sotto tornare da Milano ogni fine settimana, poi ogni mese, fino a diventare un fantasma delle feste passate, che fa visita alla famiglia solo a Natale. Dalla sua stanza, Anna sente rotolare le valigie che la ragazza si trascina sempre dietro, e quel rumore le fa tremare le tempie. Tiziana sta traslocando: il divano rosso scorre a rallentatore sul rullo della ditta di traslochi, poi è il turno del cassettone, dei comodini, di scatoloni dal contenuto misterioso e della pianta che Francesco aveva fatto tanta fatica a portare su, mentre Tiziana gli lanciava addosso rimproveri per i suoi acquisti sempre azzardati. Anna è rimasta sola, l'unico che ancora la avvicina è il gattone fulvo di Tina: le gira sempre attorno, quelle poche volte che lei scende in cortile, e qualche volta se l' è ritrovato persino in casa, immobile come una statua, a fissarla e a miagolare. 
I minuti passano lenti, gli anni volano. Anna si rigira nel letto e ora ne ha dieci in più. È ancora estate, e come ogni estate ripensa a come sarebbero andate le cose se avesse fatto una scelta diversa, se avesse avuto più coraggio, se fosse stata capace di chiudere gli occhi e lasciarsi cadere all'indietro, di abbandonarsi. In casa c'è sempre più silenzio, ti entra nello spazio vuoto tra le ossa, ti fa venire i brividi anche ad agosto. Anna non vede più Tina da tempo, e pure il suo gattone rosso sembra non passare più da quelle parti. Una sera, Anna corre sul balcone per mettere in salvo i panni da un temporale estivo, e dal terrazzo di fronte vede scivolare un lenzuolo bianco che si schianta a terra facendo un rumore straziante. Poco dopo lo schianto, il gatto rosso riappare dal nulla e inizia a gironzolare attorno al corpo.
Anna guarda immobile la scena dal balcone, non riesce a distogliere lo sguardo e non riesce a smettere di pensare: "Che fine faranno le rose? Che fine faranno le cose di cui ci prendevamo cura, quando noi non ci saremo più? E di quale delitto ci sporchiamo le mani, quando ci siamo ancora, eppure non ce ne prendiamo cura come vorremmo?".  Anna si sveglia di soprassalto, con il rumore delle ruote e delle ossa rotte sulla ghiaia che ancora le gira in testa vorticosamente. È quasi l'alba, anche quella notte troverà uno spiraglio per far entrare un po' di luce. Si alza e cammina a piedi nudi sul parquet, si avvicina alla finestra, scosta le tende: è ancora tutto addormentato, è ancora tutto possibile. 





domenica 11 luglio 2021

Gli anni più belli



Giada stava appoggiata allo stipite della porta, le gambe lisce incrociate, le infradito con gli strass che le aveva regalato sua madre per il compleanno, pochi giorni prima. Era già in costume e col suo solito tono sbrigativo disse: – Allora, andiamo? Sei pronta? – . Era luglio ed era l'ennesima estate più calda degli ultimi centocinquant' anni che ci toccava vivere annaspando e gocciolando, mentre la pianura padana assumeva il profilo delle distese verdi del Vietnam, intrisa della stessa umidità soffocante in cui ci muovevamo tutti più lenti, con i nostri sogni stropicciati e progetti impigriti nei cassetti.              Giada aveva dato l'unico esame della sessione a giugno, e da allora diceva alla madre di essere impegnata a prepararne altri due, ma anziché sottolineare economia aziendale o ripetere diritto privato, passava la maggior parte del tempo a spalmarsi di olio protezione tre e a ripetermi le cose che si erano detti lei e Davide. Mi invitava a casa sua quasi tutti i pomeriggi, tanto sua madre non c'era e suo padre lavorava. A volte la nonna faceva capolino dal piano di sotto o si affacciava alla finestra per dirci se volevamo qualcosa da mangiare. Giada le rispondeva urlando ma lei non capiva, e passati venti minuti o giù di lì ci venivano recapitati panini con paté di tonno o crostate alla marmellata amara. Giada li guardava con una smorfia e poi sospirava; non capivo mai se quel cibo le facesse davvero schifo o se odiasse solo il fatto di non poterselo mangiare. Da quando era finita la scuola era dimagrita continuamente: prima lo stress della patente, poi lo stress degli esami, infine lo stress di Davide.        Ma solo ora che la vedevo in costume mi rendevo conto di quanto fosse davvero magra, di come fosse cambiata. Io ero abituata alla magrezza, la mia, e di solito non mi colpiva troppo negli altri, come se nella retina avessi impresso un modello di corpo consueto, e vederlo fuori creava solo una sovrapposizione, nessun attrito, niente bordi che non combaciano e nessun bisogno di ricalibrare la vista. Però non riuscivo a smettere di fissare lo sterno che spuntava tra le coppe imbottite e vuote del suo costume a triangolo. Distoglievo lo sguardo, mi costringevo a guardare altrove e a pensare altro. 

– Dove ci mettiamo?                                                                                                                                      – Dove ti pare – disse, mentre stendeva il suo asciugamano nero sul lettino di fronte alla piscina – Prendi un lettino anche tu, che fai, ti sdrai sul prato? –. Spesso le domande che facevo mi sembravano incredibilmente stupide, ma me ne accorgevo solo quando Giada rispondeva, e ormai era troppo tardi per rimangiarsele. Trascinai a fatica il lettino di fianco al suo e sistemai la mia asciugamano troppo corta, preparandomi al momento che più odiavo di ogni estate: togliermi i vestiti e restare in costume.    Quando lo facevo, il tempo rallentava, i rumori si amplificavano, e sentivo gli occhi di tutti puntati su di me, anche se eravamo solo noi due. Gli sguardi si moltiplicavano e mi si appiccicavano addosso, facendomi mancare il respiro fino a soffocare. A volte era talmente difficile che a metà strada cambiavo idea e mi tenevo tutti i vestiti, morendo di caldo e raccontando qualche stupida scusa a cui qualcuno fingeva di credere. Mi guardavano male e ridacchiavano, poi andavano oltre, e alla prossima uscita a cui io non sarei stata presente si sarebbe parlato di come mi ero resa ridicola con le mie stravaganze e i miei complessi. Avrebbero rinfocolato i pettegolezzi per un po', avrebbero riso in cerchio attorno al fuoco, e poi sarebbero passate a quella successiva.                                                                                      Giada si era accomodata sulla sua sdraio, gli occhiali neri a farfalla le coprivano metà viso e stava sdraiata immobile e imperturbabile. Mi feci coraggio e fu come strappare un cerotto, anzi due: giù i pantaloni (sì, li portavo lunghi anche d'estate), su la maglietta. Giada abbassò leggermente gli occhialoni scuri e puntò lo sguardo nella mia direzione, trattenne un sorriso arricciando le labbra, poi riacquisì il suo rigor mortis, e si arrese al sole. L'obiettivo dell'estate, come di ogni estate, era abbronzarsi il più possibile e nel minor tempo possibile. Ad agosto ci sarebbe stata la grande prova finale, la vacanza in Sardegna con gli amici di Davide, e per quel giorno tanto agognato la sua pelle candida avrebbe dovuto raggiungere la gradazione del dattero bruciato dal sole del Marocco. Presentarsi in costume con addosso quel pallore sarebbe stata una vergogna imperdonabile, un'ingenuità che Giada non poteva permettersi. Un conto era mostrarsi così davanti a me, tutt'altra storia sarebbe stata farsi vedere da Davide o dagli amici di Davide, da Christian in particolare. – Ti ho detto cosa mi ha detto Davide, ieri, al telefono? – mi chiese senza voltarsi neanche di mezzo grado.                              – No. Beh, più o meno... – dissi, ripensando alla conversazione che avevamo avuto la notte prima e al suo resoconto ellittico della telefonata avuta in serata con Davide. Tra le sue omissioni e il mio abbiocco, erano le due, temevo di aver perso dei passaggi chiave.                                                             – Beh in pratica mi ha detto che lui la lascerà prima di andare in Sardegna. Sicuramente prima della Sardegna. Poi, voglio dire, anche lei... È stupida? Siamo a luglio, ancora non ti ha invitata in Sardegna, fatti due domande, no? Comunque, se lei non viene c'è un posto in più in macchina, ti va di venire? – .    Questo sicuramente non me l'aveva detto, la sera prima. Una cosa del genere l'avrei ricordata, mi avrebbe colpita, sarebbe riuscita a infrangere il muro del sonno.                                                               – E come faccio a venire? – le chiesi, temo, tradendo un certo sconforto lamentoso nella voce –. Lei si tirò un po' su e abbassò appena gli occhiali da mosca: – In che senso come fai a venire? –.                      Non sapevo proprio come spiegarglielo. Eppure neanche per lei era facile, questo lo sapevo. L'autoabbronzante, l'olio solare protezione tre, le cene saltate e i pranzi a base di frutta, la palestra ogni giorno, dopo quel famoso (infame) commento di Davide, i vestiti nuovi, il reso dei vestiti nuovi quando a Davide, secondo lei, non erano piaciuti, e tutte le cose taciute e soppresse e negate per riuscire a piacergli, prima, e per continuare a piacergli, dopo. Lo stress di Davide, insomma, che da mesi aveva sovrastato tutto il resto. Ma la mia situazione era diversa dalla sua: lei aveva Davide e aveva un piano, che a volte somigliava più a una condanna, una prigione auto imposta, costruita meticolosamente, di cui ogni giorno lucidava attentamente le sbarre. Però una strategia c'era, c'erano azioni da eseguire e ripetere con la fiducia che avrebbero portato a un risultato, che l'obiettivo sarebbe stato raggiunto.       Io invece non avevo nessun ragazzo e soprattutto non avevo nessun piano, nessun progetto, nessuna strategia malsana ma infallibile da perseguire. E non ce l'avevo perché sapevo che non sarebbe servito a niente: niente mi avrebbe strappata a quella realtà che conoscevo da troppi anni. E in quella realtà non sarei mai stata adatta, non sarei mai stata abbastanza, e tante cose mi sarebbero state proibite.              La vacanza in Sardegna sarebbe stata l'ennesima cosa per la quale avrei finto disinteresse e persino sdegno, ma alla quale in realtà rinunciavo perché non mi sentivo all'altezza, perché avevo paura dei giudizi degli altri. Non riuscivo a sopportare lo sguardo di Giada in piscina, a casa sua, tanto che ci avrei ripensato per giorni, figuriamoci come avrei affrontato gli sguardi di Davide e degli amici di Davide, di Christian, soprattutto: questa figura mitologica che mi era stata descritta come il figlio illegittimo di Alain Delon e di Dio, pronto per essere scritturato per un remake de La Piscine (e io non sarei mai stata Romy Schneider). Uno che a ventisei anni, non si sa come, o forse sì, era già chirurgo come il padre, e oltre a salvare vite, nel tempo libero andava con Gino Strada in giro per il mondo a raccogliere fondi. Una di quelle persone che prima dei trent'anni sembra aver vissuto più vite di quante tu ne vivrai mai: loro sono già alla terza, quarta reincarnazione, mentre tu sei ancora lì a cercare di capire come sopravvivere a te stessa. Non sarei rimasta in costume davanti a Davide e agli amici di Davide tra cui Christian, sarebbe stato come in quei sogni in cui vai a scuola nuda. Non volevo farlo e non ero costretta a farlo.                                                                                                                                – Silvia, tu devi venire assolutamente. Ti ci porto in manette, se necessario – disse Giada ora che aveva abbassato ancora di più gli occhiali da diva e mi fissava con sguardo perentorio.                                     – Ma...Perché? Cioè perché ci tieni tanto?                                                                                                   – E io come faccio senza di te? – Giada si sollevò sulla sdraio fino a sedersi a gambe incrociate – E se poi mi trovo male con gli amici di Davide? Con chi parlo? Con chi mi sfogo? Tu sei l'unica che mi ascolta, lo sai. La Mery non la posso più chiamare, da quando sta con quello...Se no lei sarebbe perfetta, ma figurati se ci viene, da sola, senza portarsi la valigia dietro.                                                                 – Non lo so, Giada...Forse devo andare in Francia da mia sorella, quest'estate.                                          – No, non puoi abbandonarmi per tua sorella! – Giada sbuffò e si alzò di scatto – Senti, io mi faccio un bagno, tu fai come ti pare – lasciò cadere gli occhiali sulla sdraio e e si tuffò.                                            L'afa sembrava aumentare ad ogni respiro, il mio costume intero era ormai indistinguibile dalla pelle, come una tuta da sub spalmata addosso. Guardavo Giada fare bracciate, immergersi, uscire dall'acqua e poi rituffarsi, con i capelli bagnati che luccicavano al sole come squame e il costume turchese un po' sgonfio sul suo petto. Pensavo a come sarebbe stato poter dire di sì, accettare un invito, anche se si trattava di un invito di convenienza, come era spesso (sempre?), e andare davvero in Sardegna, con ragazzi della mia età o di alcuni anni più grandi di me, svegliarsi tardi, andare al mare insieme, chiacchierare, ridere, andare a cena fuori, fare cose normali, non pensare, non avere paura, non addormentarsi con la testa sotto il cuscino per non sentirli litigare. La sera prima, mentre aspettavo la telefonata di aggiornamento di Giada, che si era poi svolta, come sempre, a orari vampireschi, mi aveva chiamato zia e avevamo parlato per cinque minuti, prima che le passassi mamma. Ci eravamo dette le solite cose di circostanza, e avevamo cercato di schivare le solite domande, di sparare risposte a salve a quei "Come stai?" a cui nessuna delle due voleva rispondere. Sentendo la mia voce triste e le mie risposte evasive e incerte, la vedevo sorridere benevolmente dall'altra parte del telefono e, come ogni volta, mi aveva detto: – Goditi questo periodo, sono gli anni più belli! 





domenica 4 luglio 2021

Saluti e baci da Rimini




– C'è voluto un po', ma ce l'abbiamo fatta – mi dice F. guardandomi fisso negli occhi. E stranamente il suo sguardo non mi disturba. 


Ci sono voluti giorni, mesi, e prima ancora anni, ma alla fine ci siamo trovati nella stessa città, con la stazione sullo sfondo e il mare davanti, in una cartolina sognata mille volte, di quelle con i collage di posti da visitare e le scritte vintage tondeggianti che ti mettono un po' tristezza e un po' allegria. C'è qualcosa di più triste della parola allegria
Ho passato la notte insonne a immaginare questo incontro nei dettagli più infimi: come mi sarei vestita, dopo mesi di pigiami e tute, come ci saremmo salutati, ora che i saluti sono così carichi di incognite, oltre che dei soliti imbarazzi, di cosa avremmo parlato, e cosa avrei detto, soprattutto, sperando che la timidezza non mi avrebbe stretto la gola e annebbiato la mente, come succede ancora più spesso di quanto vorrei. Certo che se ti lasci trascinare da certi pensieri è impossibile dormire, e se non dormi il mattino dopo le tue innate occhiaie te lo faranno pesare, ti guarderanno sprezzanti e arrese allo specchio e ti diranno: "Ma ci hai viste? Ti pare che con due come noi puoi permetterti di fare le ore piccole? L'insonnia tu non te la puoi permettere, ché poi inizi pure ad avere un'età!". Ed è così che mentre pensavo all'imminente confronto con le mie occhiaie, il sonno ha avuto la meglio, e per almeno tre orette buone ho avuto la grazia di non dover pensare a niente. 
Il viaggio in treno della mattina dopo, anche noto ai posteri come La Corsa Sgraziata Per Non Perdere l'Ennesimo Treno Della Tua Vita, è stato rocambolesco q.b. e mi ha lasciato senza fiato per una cospicua mezz'oretta, ché inizio pure ad avere un'età. Ma ora, con lui davanti, più alto e più carino di quanto lo ricordassi, sento di essermi accomodata in un accogliente presente in cui posso camminare, non correre, respirare senza affanno, esistere, senza desiderio di essere altrove. 
Trascorrere il tempo con una persona che ti piace è per me una forma di meditazione: ti immerge nel presente, ti libera dal peso di proiezioni passate e future, allevia il rumore dei vortici dei tuoi pensieri.  E così inizio a fluttuare in questo tempo sospeso e rarefatto, godendomi i movimenti lenti del mio corpo, il fluire spontaneo delle nostre parole, osservando i suoi sguardi e i suoi gesti.
F. quando parla gesticola un po', è teatrale, a volte, e si lascia prendere dall'enfasi di quello che racconta, dà il tono e la cadenza giusta a tutte le parole. Io lo guardo rapita e spero non se ne accorga troppo, ho paura che far trasparire quanto mi piace sia un passo falso, che sia come far scoprire il punto debole al nemico o dargli in mano l'arma con cui distruggerti. Di sicuro questo modo di pensare è retaggio di relazioni tossiche passate, perché poi non sempre l'altro è il nemico, non tutti sono lì per illuderti, usarti, ferirti. Credo che F. sia diverso, ma se fosse un altro di quella lista, appenderei le scarpette al chiodo e mi rassegnerei per sempre al mio destino monacale, ché tanto la vita ascetica penso mi si addica; anche se a molte cose ho rinunciato per paura più che per scelta, e la paura non è mai una motivazione saggia, per quanto possa esser salda e sostenersi benissimo e a lungo.


– Ti ho portato una cosa, per il tuo compleanno. Lo so, sono un po' in ritardo... – F. si gratta la testa e abbassa lo sguardo, accennando un sorriso.
Lo ringrazio e intanto ho gli occhi a cuoricino come in una delle emoticon che uso più spesso. Forse sono pure arrossita un po', ma con la mascherina non si vede. Stacco con cura lo scotch dagli angoli della carta bianca un po' increspata.
– No! Mi hai preso i cantucci!
– Però non mi deludere, me li devi assaggiare con il vino.
– Guarda che con il latte fresco di mandorle sono buonissimi lo stesso.
Miscredente! Eretica! – mi dice enfatico alzando le braccia – E comunque ci sarebbe anche questa... – Vedo una busta da lettera infilata nel risvolto della confezione, inizio ad aprirla, poi mi fermo. Preferisco leggerla da sola, a casa, un po' per masochismo e un po' per paura di quello che c'è scritto e di come potrei reagire. 
– Preferisco leggerla da sola, a casa, abbiamo così poco tempo... 
– Come vuoi. L'importante è che poi mi rispondi, e non fai finta di niente. Promesso?
– Promesso.
Mi prende la mano e continuiamo a camminare, avremo fatto già quelli che nella mia testa sono chilometri e chilometri, ma dopo che hai passato circa un anno, un anno e mezzo, a fare la spola tra il letto e il divano, perdi un po' la cognizione dello spazio e delle distanze. 
A proposito di distanze, quelle da colmare tra di noi sembrano tante: la distanza geografica, io qui confinata nella pianura dagli infiniti orizzonti ormai esauriti, lui lì affacciato sul mare con il vento dell'est che gli scompiglia i capelli; poi la differenza di età, quei sei anni che a volte sembrano pochi e a volte vorrei non esistessero, così almeno ci sarebbe una cosa in meno a cui pensare; le nostre famiglie sono radicalmente diverse, e per quanto mi piaccia immaginarmi sradicata, individuale, perché so quanto possano pesare le radici e quanto possano essere marce, toglierti forza anziché nutrirti, trattenerti anziché lasciarti crescere rigogliosa, mi accorgo ogni giorno di quanto reciderle sia complicato, faticoso, un lavoro estenuante su cui tornare e ritornare più volte. Poi sono diverse le nostre scelte di vita: le sue così sicure e ambiziose, così concrete e manifeste; le mie ancora tutte in embrione, ancora da disfare e rifare, perché per tanti anni ho rotolato, avvolta su me stessa, come un gomitolo che non voleva diventar maglione, e ora mi accorgo che inizio a sentire freddo, a desiderare una rotta e un porto a cui attraccare. Mi chiedo se saprà aspettare, se potrà tollerare tutte queste mie incertezze così imbarazzanti, ora che inizio pure ad avere un'età. Faccio fatica a parlargli di certe cose, ho paura di essere giudicata, temo che scopra che sono solo un bluff e che le qualità che vede in me siano sue allucinazioni, perché io riesco a vederle soltanto a volte, quando sono in un certo stato un po' alterato di coscienza. Il resto del tempo vivo in una realtà in cui mi sembra di non valere niente, di non essere all'altezza di nessuno, circondata da persone che valgono e che hanno sguardi ammiccanti e sorrisi sfacciati come in una pubblicità, ora che tutti sono in vetrina. Devi lavorare su te stessa, e peccato che non sia nemmeno un lavoro retribuito, anzi talvolta prevede pure che sia tu a pagare, per aggiustarti, per migliorarti, perché sì, vai bene così come sei, ma in realtà come sei non vai affatto bene e non sarai mai abbastanza per te e per nessuno.


– Quando stai in silenzio così a lungo inizio a preoccuparmi...C'è qualcosa che non va? Posso fare qualcosa per metterti a tuo agio? – mi chiede F. intuendo che quello non era un silenzio di quelli di chi sta bene e si gode anche l'assenza di parole, ma uno di quelli in cui si insinuano gli spifferi e i pensieri intrusivi.
– No no, niente.
– Quando voi donne dite niente...Non c'è da star tranquilli – abbozza un sorriso.
– Intanto voi donne a me non me lo dici – gli rispondo, sorridendo. 
– Suvvia, non te la prendere. È che ti ho vista che ti sei incupita...L'ho notato, hai cambiato proprio espressione. 
F. ha uno sguardo proprio dolce, accogliente, non ci trovi cattiveria nei suoi occhi, neanche quando è arrabbiato: al massimo si adombrano un po' di delusione, si offuscano di dispiacere, ma non scorgerai mai superbia o sarcasmo. 
Vorrei non dover ripartire così presto, vorrei annullare almeno una di tutte le nostre distanze, portarlo con me, restare qui, non lasciare che tutti questi stupidi chilometri si mettano di nuovo in mezzo. 
Vorrei non dover fare a meno del suo sguardo, della sua voce, delle sue mani.