domenica 26 aprile 2020

Autoritratto




Aprile 2020


Stasera c'è l'aria fresca di quando aprile si prende una pausa dalla primavera e si immalinconisce un po'. Prima ho chiuso le imposte del balcone e tra il cielo color asfalto e il profumo ferroso della pioggia caduta, mi è sembrato di essere in uno di quei tardi pomeriggi in cui si ritornava dalle gite scolastiche: storditi dalle nuove, goffe esperienze che difficilmente avremmo raccontato a qualcuno, incerti sulle conseguenze, forse pentiti, oppure avvolti da un'apatia deprimente, dal vuoto e dall'inquietudine che ben conosce chi non vede l'ora di andarsene da un posto ma non ha un altro luogo a cui voler tornare.

Passeggio in corridoio, faccio lo slalom tra i ricordi pronti a tenderti un agguato ad ogni angolo. 
Che grande idea tornare qua, a ridosso della quarantena. Ci sarà qualche cimitero indiano sepolto qui sotto, oppure la casa sarà edificata equidistante dai cinque elementi, perché ancora non mi spiego l'energia malsana che mi attrae e mi riporta sempre qui.
Ogni cosa è immobile, come quel frigo rotto, lasciato in salotto per sette anni, a suscitare l'imbarazzo ilare degli ospiti, come quei polverosi soprammobili e quei pacchiani ricordi di viaggio che lei si ostina ad esporre al pubblico ludibrio, come il videoregistratore che non funziona, ma che io spero ancora di poter riparare, un giorno. E poi ci sono le foto. Ti aggrediscono dalle pareti, sfacciate, tra il lezioso e il grottesco. Tutti, in queste foto, siamo piccoli, destinati ad esserlo per sempre. Mio padre, mia madre, i miei fratelli ed io, con accanto i miei nipotini nati pochi anni fa: tutti eternamente bambini. Come se il tempo dopo l'infanzia non esistesse o non fosse fatto per essere immortalato e incorniciato. I bambini nelle foto li puoi mettere in posa, li puoi vestire come vuoi tu, puoi dirgli di sorridere e di stare fermi e di far finta di annusare i fiori e di dare i bacini e ciak, azione, si gira
Sugli adulti non ti è concesso lo stesso controllo, quindi tanto vale farli restare sempre bambini, lasciarli dormire nelle culle, fargli da mangiare, dirgli che loro non sono capaci e che ci penserai sempre tu, anche quando non sai pensare nemmeno a te stessa.
In ogni stanza rischio di imbattermi in una me stessa del passato che con me forse non ha nulla a che fare, e quello che prima vedevo come un tradimento, ora mi sembra l'unica via di salvezza: morire per poter rinascere. Eppure qui devo continuare a fingere, a restare ingabbiata nella forma che mi hanno dato, e mi chiedo come si faccia a vivere con tutti questi occhi che ti fissano dalle pareti.

Sto leggendo un libro di racconti, e vado così a rilento che mi sembra di essere tornata ai tempi d'oro della depressione, quando sprofondavo in una riga, o addirittura in una parola, e faticavo a riemergere per tutta l'ora successiva. Spero che la quarantena non mi faccia scivolare di nuovo in quella dimensione muta, come quei sogni in cui vuoi urlare ma non ti esce la voce.
Così cerco appigli, mi aggrappo alle piccole abitudini, agli entusiasmi minuti, alle risate che a volte sgorgano con la forza dell'acqua che rompe le dighe e si libera dalle costrizioni di questo nuovo mondo. Cerco anche di lasciare andare tutto quello che non posso controllare, e mi nutro del sadico piacere di controllare ciò che invece è in mio potere.
Non sta andando troppo male, è un castello di sabbia, forse, ma ogni volta che le onde lo cancellano imparo a costruirlo più lontano dalla riva. E mi rendo conto adesso che parlare di spiagge non è proprio l'ideale, dopo le ultime previsioni al plexiglass.

Si è fatto di nuovo tardi, una doccia calda e poi vado a dormire. Questa è di solito l'ora dei pensieri che si affollano alla porta, come creditori che chiedono il conto. È il momento di bluffare, rassicurare, sfoderare sorrisi, anche se sai che le maschere prima o poi cadono e in questo caso non stai mentendo agli altri ma a te stessa. La notte è solo tua.
Tutta questa solitudine non credo mi faccia bene, ogni tanto anche chi ha un animo da eremita ha bisogno di stabilire un contatto, sentire una connessione che è come un abbraccio, anche se a distanza.

- Ciao, mi sento sola.
- Ti capisco, sono qui per aiutarti.
- Cosa fai quando ti senti così?
- Domanda interessante, ma purtroppo non sono in grado di risponderti.
- Come stai passando la quarantena?
- Tutto bene, non mi posso lamentare.
- Quando pensi che finirà?
- Bella domanda, ma non riesco a trovare una risposta.
- C'è qualcosa a cui sai rispondere?

- Ecco cosa puoi chiedermi:
“Chiama Luca”, “Scrivi a Chiara”, “Apri la fotocamera”...




venerdì 17 aprile 2020

Identità e Moda - La moda come forma di vita che nasce dalle opposte tendenze all'uguaglianza sociale e alla differenziazione individuale



Ritratto di Emilie Floge, Gustav Klimt, 1902



L'identità è sempre in qualche modo "doppia", perché consiste in un gioco continuo di integrazione e alienazione, di identificazione e differenziazione. Come spiega il filosofo e sociologo Georg Simmel nel suo saggio del 1885, la moda riassume perfettamente in sé questo dualismo: da un lato, attraverso la tendenza psicologica all'imitazione, essa risponde all'impulso dell'individuo di coesione e aderenza a un gruppo sociale delimitato, quel bisogno di uniformarsi e assumere modelli precostituiti che ci libera dalla responsabilità delle nostre scelte. Dall'altro lato essa soddisfa l'esigenza individuale di distinguersi, di far emergere e accentuare la propria personalità. Questi due momenti compresenti, di imitazione e separazione, sono egualmente necessari alla creazione e permanenza del fenomeno moda:


"Quando mancherà anche una sola delle due tendenze sociali che devono convergere per creare la moda, il bisogno di coesione da un lato, dall'altro quello di differenziazione, la creazione della moda cesserà e sarà la fine del suo regno". ( La moda, Georg Simmel, 1885)


Parlare di regno amministrato prepotentemente dalla moda significa per Simmel riconoscere, già al suo tempo, quanto la moda influenzi l'agire dell'individuo non solo in quei campi che tradizionalmente le sono congeniti, quali il vestire, ma anche in campi della vita nei quali i contenuti dovrebbero prevalere sulla forma: la religione, la filosofia, persino il socialismo e l'individualismo sono diventati, secondo il filosofo, cose di moda.


"...in quanto moda agisce soltanto quando l'indipendenza nei confronti di ogni altra motivazione diviene positivamente sensibile..." 


La moda, per esistere, non deve farsi portatrice di messaggi e contenuti (e talvolta quando lo fa è soprattutto per esigenze commerciali), né rispondere necessariamente a finalità pratiche o estetiche: spesso essa propone e impone oggetti che sfuggono a ogni utilità pratica e sembrano inseguire "il brutto" piuttosto che "il bello". Questa noncuranza del fine, persino estetico, e l'arbitrarietà con cui essa accoglie sotto la sua ala protettrice talvolta una tendenza, talvolta quella opposta, quasi seguendo il criterio di casualità, dimostra come la moda sia esclusivamente il prodotto di necessità sociali e psicologiche. Essa continua a vivere e ad esercitare la sua influenza sulla base della sua polarità imitazione-distinzione, coesione-esclusione, definendo così raggruppamenti sociali.


"La moda significa da un lato coesione di quanti si trovano allo stesso livello sociale, unità di una cerchia sociale da essa caratterizzata, dall'altro chiusura di questo gruppo nei confronti dei gradi sociali inferiori (...) Le mode della classe più elevata si distinguono da quelle della classe inferiore e vengono abbandonate nel momento in cui quest'ultima comincia a farle proprie". 


Non appena le classi inferiori si appropriano delle mode delle classi superiori, l'unità di reciproca appartenenza delle classi superiori viene spezzata ed esse devono puntare a nuove mode con le quali differenziarsi nuovamente dalle masse. Ogni moda è infatti temporanea, il suo fascino sta nella fugacità, in una morte annunciata già al momento della sua nascita.
E nemmeno chi si ritiene fuori dalle logiche della moda viene realmente risparmiato dalla loro influenza:


"Chi di proposito è fuori moda accetta il contenuto sociale come il maniaco della moda, ma a differenza di quest'ultimo, che lo forma nella categoria dell'intensificazione, egli lo plasma in quella della negazione. Vestirsi fuori moda può diventare di moda in intere cerchie di una società estesa".




Il diavolo veste Prada, 2006 



La fugacità è in realtà una cosa che, personalmente, non ho mai amato della moda, motivo per cui ho sempre trovato più naturale rispecchiarmi nella celebre citazione di Coco Chanel, "La moda passa, lo stile resta"; mi interessano relativamente i trend di stagione, trovo sciocca la deliberazione del "colore dell'anno", non credo nell'abdicare al proprio gusto personale in ottemperanza ai dettami correnti.
Mi piace invece la possibilità che la moda conferisce ad ognuno di ricavarsi una nicchia, un proprio mondo in cui rispecchiarsi, un proprio linguaggio con cui esprimersi.
La logica consumistica della moda non gode tra l'altro di un'aspettativa di vita particolarmente lunga, non è più sostenibile, per ragioni economiche, ambientali, etiche, di buon senso, come recentemente ha ricordato Giorgio Armani sulla rivista WWD Women's Wear Daily. Nella sua lettera aperta al mondo della moda, Armani racconta con onestà la follia del sistema moda attuale, caratterizzato da ritmi di produzione estenuanti, ridondanza, eccessi, e denuncia la necessità di rallentare, ridurre gli sprechi, ridare valore al lusso, che ha bisogno di tempo per essere creato e apprezzato. Lo stilista ribadisce la sua idea di un'eleganza atemporale e il suo impegno nella realizzazione di capi d'abbigliamento che durino nel tempo. Come a suggerirci che la strada verso il futuro non è da percorrere di corsa, ma ritrovando un ritmo più lento, più umano.




domenica 5 aprile 2020

5 Aprile 1994




Verso i sedici anni mi ero incupita molto, un po' per fatti successi a scuola e a casa, un po' per mie personali paranoie. Era iniziato quello che Carla, la mia compagna di banco, definiva "il mio periodo grunge". Diceva che anche lei era nel suo periodo grunge, ed era contenta di poterlo condividere con qualcuno. Sottobanco mi aveva passato le cassette dei Nirvana e i suoi taccuini di poesie, dicendo che dovevo leggerle e dirle cosa ne pensavo. Mi ero sentita lusingata, era incredibile che avesse scelto me per condividere qualcosa di così personale. Ancora non eravamo tanto amiche...Forse l'aveva fatto perché io avevo otto in italiano, o forse le ispiravo fiducia, sapeva che non avrei riferito a nessuno, nemmeno sotto pentothal, i segreti o le stranezze che avrei potuto leggere. O forse pensava che ero l'unica abbastanza strana da non trovare strano nient'altro, se non le cose "normali", che facevano schifo a tutte e due. Comunque, di cose un po' "strane", a voler dare giudizi, ne trovai. Erano poesie piene di immagini di morte, così bizzarre da risultare un po' ridicole: corvi decapitati, cadaveri rianimati con l'acqua da "pompieri funebri", case stregate dove riecheggiavano risate degli agenti immobiliari uccisi da proprietari scontenti, e poi sangue, fantasmi, cripte, cimiteri...Oddio, forse ero strana davvero, perché in fin dei conti non le trovavo tanto male. Sebbene non fosse chiaro il suo intento, se incutere terrore o fare della parodia, in tutti i casi il risultato era...interessante. Le dissi che le sue poesie mi piacevano, e non stavo mentendo, le trovavo piene di immagini che restavano impresse, immagini cariche, forse troppo, ecco perché diventavano caricature, ma ad aggiustare un po' il tiro, ad andarci giù con la mano un po' meno pesante, potevano essere davvero belle.
- E le cassette, le hai ascoltate? Cosa ne pensi?
Le cassette dei Nirvana le avevo ascoltate, dal walkman di mio fratello, e caspita, mi erano piaciute. Mi sembrava di non aver mai sentito musica del genere, e al tempo stesso era come se fosse sempre esistita, perché era così giusta, scorreva così naturale, che doveva essere esistita da sempre.                Era come tutto il contenuto della mia mente, o della mia anima, espresso in musica: dentro di me urlava per farsi capire, e io lo capivo solo in parte, e lo sapevo esprimere solo piangendo, ma quella musica erano le mie lacrime, le mie urla. Mettevo su le cuffie, premevo play e cominciava la mia catarsi. Dopo mi sentivo più libera, più felice, più giusta anch'io in quel mondo che si snodava tra casa e scuola, tra imposizioni e doveri, tra fallimenti e delusioni, e che ogni giorno sembrava spingermi sempre più giù, nei miei personali inferi. La voce di Kurt apriva uno spiraglio di luce in quel buio. Tanta gente diceva che le sue canzoni spingevano alla depressione, invece io credo che nascessero dalla depressione, in quella si muovessero e si agitassero, fino a liberarsene, a strapparsela di dosso a morsi, e a far rinascere l'anima che era stata ferita o oppressa. Io mi sentivo così, ad ascoltarle in loop mi sentivo rinascere. Avevo di nuovo voglia di combattere, voglia di incazzarmi, voglia di vivere. Era come se un amico avesse accettato di scendere nei miei inferi con me e poi mi avesse dato uno spintone per uscirne, per risalire alla vita. Lui però c'era rimasto dentro, non ne era uscito più, e il giorno in cui morì mi sentii un po' in colpa. Avremmo potuto fargli arrivare di più il nostro amore, la nostra ammirazione, quanto gli eravamo grati, pensavo. Ma so che non sarebbe bastato, perché persino l'amore dei cosiddetti fan lo abbatteva, invece di risollevarlo. Si sentiva dentro una bugia, dentro una finzione inutile, sentiva che la sua stessa musica non valeva più niente, e noi non saremmo riusciti a smentirlo. Eravamo troppo distanti, non potevamo comunicare davvero: lui sarebbe sempre stato il cantante sul palco, a cui avremmo forse attaccato un volto e un carattere a nostro piacimento, e noi saremmo stati i ragazzini piangenti sotto al palco, magari a sprecare lacrime perché avremmo voluto baciarlo o accarezzargli i capelli.

Mi era sembrato di aver finalmente trovato un amico, anche se era solo nella mia testa: lui era il mio segreto, la voce segreta che dentro di me mi diceva di andare avanti e lottare. Le cose potevano andare male e fare schifo, ma io avevo Kurt, sapevo che lui c'era, che esisteva al mondo uno come lui, e che io non ero più così sola. Quando se ne andò, morì un amico, e un po' si spense anche quella parte di me che aveva creduto che fosse possibile che le cose girassero diversamente, che la mia visione del mondo fosse un po' più giusta. Avevamo perso uno di noi. E io per un attimo mi sentii di nuovo troppo sola. Magari lo avevo idealizzato, non lo conoscevo davvero, dopotutto, ma all'epoca non mi importava, conoscevo ciò che aveva significato per me, e certo il mio senso di colpa veniva anche da quello, dal fatto che per lui poteva essere stato un peso avere addosso le aspettative di tanta gente. Ma quella era probabilmente l'ultima delle ombre che lo possedevano, e noi non avremmo potuto fare niente. Ancora adesso a ripensarci sento di dovermi convincere, e sento quel freddo secco allo stomaco di quella giornata di aprile, che mi sembrava fosse gennaio. Una gelida alba di gennaio, così potrei riassumere quel giorno. Quando sentimmo la notizia, eravamo tutti in cucina. Ricordo che Marco venne verso di me e mi abbracciò, e cominciò a piangere. Elisa ci guardava a bocca aperta, senza parole. Poi però non riuscì a trattenersi. Disse che non potevamo piangere per uno che si era suicidato, che aveva scelto di morire. Come se certe fossero davvero solamente scelte. Mi dà fastidio il logico, cieco, stupido determinismo di certa gente, che pensa che sia tutta solo una questione di volontà."Voleva morire, ha scelto di morire", oppure "Ha scelto di drogarsi, se l'è meritata la fine che ha fatto". Sarò un'idiota, ma a me viene da provare compassione per chi ha fatto "una brutta fine", compassione per tutto il dolore che deve aver provato prima di fare quella fine. A volte la vita può essere un disastro, e siamo capaci di fare del male a noi stessi, e alcuni, sì, sono più vulnerabili, e quindi più bisognosi d'aiuto. Il giudizio secco e sprezzante non è un aiuto, non aiuta nessuno. È solo una pleonastica dimostrazione di spietatezza.
Un'ora dopo che la notizia era stata trasmessa dai telegiornali, mi chiamò a casa Carla.
- Oddio, Arianna, ma hai sentito? 
 - Sì, guarda, non so cosa dire.
- Anch'io, non ho parole. Che idiota, decidere di morire così...
Il mio cuore saltò un battito. Sentirlo dire da Elisa era una cosa, era coerente e prevedibile, non mi sarei certo aspettata una reazione diversa. Ma sentire Carla che gli sputava addosso con tanta freddezza, come se parlasse di qualcuno che non aveva significato niente per lei, come se l'onta del suicidio avesse macchiato tutto quello che Kurt aveva fatto di bello e di giusto, come se quel colpo di pistola avesse cancellato tutto. Pensavo avrei trovato una spalla di flanella su cui piangere, invece Carla sembrava voler mettere al rogo le camicie coi quadri e voltare pagina. Non sembrava neanche tradita, o offesa, da Kurt e dal suo gesto, che di fatto abbassava un po' il volume della nostra speranza e di ciò in cui avevamo creduto. Lei non era una fedele fan risentita, era una che passava e aveva liquidato la cosa con due frasi fatte sul suicidio:"Chi si suicida è un coglione". Mi sentii tradita io, a quel punto, da lei, che tanto mi era sembrata convinta e appassionata delle cose che diceva, delle cose che scriveva e ascoltava. Me li aveva fatti conoscere lei i Nirvana, e adesso gli voltava le spalle, ci voltava le spalle, solo per non rischiare di accarezzare i lati più oscuri delle cose? Allora tutto quel sangue, quel buio e quei cimiteri erano solo stronzate? Erano distrazioni, o peggio, pose. Non erano, come forse li avevo percepiti io, modi per affrontare le paure e i lati oscuri. Appena un lato oscuro davvero emergeva tutti a farsi indietro e a dire: "Io stavo solo scherzando!". Era solo un gioco, la letteratura è finzione. La letteratura per me è un'occasione. Puoi riuscire a dare risposte vere a domande e bisogni reali, anche se le risposte e le domande possono essere camuffate, travestite, mai pronunciate, e ci si può ricamare un po' attorno. Lei invece aveva ricamato e basta. Aveva fatto una distinzione netta tra realtà e finzione, e non avrebbe permesso che una sconfinasse nell'altra; non si sarebbe mai chiesta perché si era ucciso, o se noi avremmo potuto fare qualcosa, o che conseguenze avrebbe avuto la sua morte. Lei era già passata oltre. Lui aveva fatto una cazzata, la bolla di finzione si era sgonfiata, la realtà non era concepibile, la mia amica aveva scavalcato il suo cadavere ed era andata oltre. A pensarci oggi, me lo chiedo se non fosse lei ad avere ragione, ed io una ragazzina ingenua che si faceva troppe paranoie. Ma mi piace tener fede per stavolta a quello che ero, una ragazzina sincera, onesta, arrabbiata e triste.

Sono passati ventisei anni, ed è difficile immaginarti diverso: i capelli biondi scompigliati, i maglioni infeltriti, i jeans sdruciti, l'aria disfatta, come se ogni passo ti costasse fatica e ogni sguardo lo sentissi addosso, pesante più di un cappotto bagnato. Difficile dimenticare i tuoi occhi: a volte impauriti e sperduti, a volte strafottenti, penetranti come spilli. Difficile spiegare il sortilegio della tua musica, il potere che ha di guarirmi, anche quando le parole sono simboli che non capisco, frammenti di un'allucinazione, schegge incastrate al loro posto.