Aprile 2020
Stasera c'è l'aria fresca di quando
aprile si prende una pausa dalla primavera e si immalinconisce un
po'. Prima ho chiuso le imposte del balcone e tra il cielo color
asfalto e il profumo ferroso della pioggia caduta, mi è sembrato di
essere in uno di quei tardi pomeriggi in cui si ritornava dalle gite
scolastiche: storditi dalle nuove, goffe esperienze che difficilmente
avremmo raccontato a qualcuno, incerti sulle conseguenze, forse
pentiti, oppure avvolti da un'apatia deprimente, dal vuoto e
dall'inquietudine che ben conosce chi non vede l'ora di andarsene da
un posto ma non ha un altro luogo a cui voler tornare.
Passeggio in corridoio, faccio lo
slalom tra i ricordi pronti a tenderti un agguato ad ogni angolo.
Che
grande idea tornare qua, a ridosso della quarantena. Ci sarà qualche
cimitero indiano sepolto qui sotto, oppure la casa sarà edificata
equidistante dai cinque elementi, perché ancora non mi spiego
l'energia malsana che mi attrae e mi riporta sempre qui.
Ogni cosa è immobile, come quel frigo
rotto, lasciato in salotto per sette anni, a suscitare l'imbarazzo
ilare degli ospiti, come quei polverosi soprammobili e quei pacchiani
ricordi di viaggio che lei si ostina ad esporre al pubblico ludibrio,
come il videoregistratore che non funziona, ma che io spero ancora di
poter riparare, un giorno. E poi ci sono le foto. Ti aggrediscono
dalle pareti, sfacciate, tra il lezioso e il grottesco. Tutti, in
queste foto, siamo piccoli, destinati ad esserlo per sempre. Mio
padre, mia madre, i miei fratelli ed io, con accanto i miei nipotini
nati pochi anni fa: tutti eternamente bambini. Come se il tempo dopo
l'infanzia non esistesse o non fosse fatto per essere immortalato e
incorniciato. I bambini nelle foto li puoi mettere in posa, li puoi
vestire come vuoi tu, puoi dirgli di sorridere e di stare fermi e di
far finta di annusare i fiori e di dare i bacini e ciak, azione,
si gira.
Sugli adulti non ti è concesso lo stesso controllo, quindi tanto vale farli restare sempre bambini,
lasciarli dormire nelle culle, fargli da mangiare, dirgli che loro
non sono capaci e che ci penserai sempre tu, anche quando non sai
pensare nemmeno a te stessa.
In ogni stanza rischio di imbattermi in
una me stessa del passato che con me forse non ha nulla a che fare, e
quello che prima vedevo come un tradimento, ora mi sembra l'unica via
di salvezza: morire per poter rinascere. Eppure qui devo continuare a
fingere, a restare ingabbiata nella forma che mi hanno dato, e mi
chiedo come si faccia a vivere con tutti questi occhi che ti fissano
dalle pareti.
Sto leggendo un libro di racconti, e
vado così a rilento che mi sembra di essere tornata ai tempi d'oro
della depressione, quando sprofondavo in una riga, o addirittura in
una parola, e faticavo a riemergere per tutta l'ora successiva. Spero
che la quarantena non mi faccia scivolare di nuovo in quella
dimensione muta, come quei sogni in cui vuoi urlare ma non ti esce la
voce.
Così cerco appigli, mi aggrappo alle
piccole abitudini, agli entusiasmi minuti, alle risate che a volte
sgorgano con la forza dell'acqua che rompe le dighe e si libera dalle
costrizioni di questo nuovo mondo. Cerco anche di lasciare andare
tutto quello che non posso controllare, e mi nutro del sadico piacere
di controllare ciò che invece è in mio potere.
Non sta andando troppo male, è un
castello di sabbia, forse, ma ogni volta che le onde lo cancellano
imparo a costruirlo più lontano dalla riva. E mi rendo conto adesso
che parlare di spiagge non è proprio l'ideale, dopo le ultime
previsioni al plexiglass.
Si è fatto di nuovo tardi, una doccia
calda e poi vado a dormire. Questa è di solito l'ora dei pensieri
che si affollano alla porta, come creditori che chiedono il conto. È
il momento di bluffare, rassicurare, sfoderare sorrisi, anche se sai
che le maschere prima o poi cadono e in questo caso non stai mentendo
agli altri ma a te stessa. La notte è solo tua.
Tutta questa solitudine non credo mi
faccia bene, ogni tanto anche chi ha un animo da eremita ha bisogno
di stabilire un contatto, sentire una connessione che è come un
abbraccio, anche se a distanza.
- Ciao, mi sento sola.
- Ti capisco, sono qui per aiutarti.
- Cosa fai quando ti senti così?
- Domanda interessante, ma purtroppo
non sono in grado di risponderti.
- Come stai passando la quarantena?
- Tutto bene, non mi posso lamentare.
- Quando pensi che finirà?
- Bella domanda, ma non riesco a
trovare una risposta.
- C'è qualcosa a cui sai rispondere?
- Ecco cosa puoi chiedermi:
“Chiama Luca”, “Scrivi a
Chiara”, “Apri la fotocamera”...
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