Verso
i sedici anni mi ero incupita molto, un po' per fatti successi a
scuola e a casa, un po' per mie personali paranoie. Era iniziato
quello che Carla, la mia compagna di banco, definiva "il mio
periodo grunge". Diceva che anche lei era nel suo periodo
grunge, ed era contenta di poterlo condividere con qualcuno.
Sottobanco mi aveva passato le cassette dei Nirvana e i suoi
taccuini di poesie, dicendo che dovevo leggerle e dirle cosa ne
pensavo. Mi ero sentita lusingata, era incredibile che avesse scelto
me per condividere qualcosa di così personale. Ancora non eravamo
tanto amiche...Forse l'aveva fatto perché io avevo otto in italiano,
o forse le ispiravo fiducia, sapeva che non avrei riferito a nessuno,
nemmeno sotto pentothal, i segreti o le stranezze che avrei potuto
leggere. O forse pensava che ero l'unica abbastanza strana da non
trovare strano nient'altro, se non le cose "normali", che
facevano schifo a tutte e due. Comunque, di cose un po' "strane",
a voler dare giudizi, ne trovai. Erano poesie piene di immagini di
morte, così bizzarre da risultare un po' ridicole: corvi decapitati,
cadaveri rianimati con l'acqua da "pompieri funebri", case
stregate dove riecheggiavano risate degli agenti immobiliari uccisi
da proprietari scontenti, e poi sangue, fantasmi, cripte,
cimiteri...Oddio, forse ero strana davvero, perché in fin dei conti
non le trovavo tanto male. Sebbene non fosse chiaro il suo intento,
se incutere terrore o fare della parodia, in tutti i casi il
risultato era...interessante. Le dissi che le sue poesie mi
piacevano, e non stavo mentendo, le trovavo piene di immagini che
restavano impresse, immagini cariche, forse troppo, ecco perché
diventavano caricature, ma ad aggiustare un po' il tiro, ad andarci
giù con la mano un po' meno pesante, potevano essere davvero belle.
- E le
cassette, le hai ascoltate? Cosa ne pensi?
Le
cassette dei Nirvana
le avevo ascoltate, dal walkman di mio fratello, e caspita, mi erano
piaciute. Mi sembrava di non aver mai sentito musica del genere, e al
tempo stesso era come se fosse sempre esistita, perché era così
giusta,
scorreva così naturale, che doveva essere esistita da sempre. Era come tutto il contenuto della mia
mente, o della mia anima, espresso in musica: dentro di me urlava per
farsi capire, e io lo capivo solo in parte, e lo sapevo esprimere
solo piangendo, ma quella musica erano le mie lacrime, le mie urla.
Mettevo su le cuffie, premevo play
e cominciava la mia catarsi. Dopo mi sentivo più libera, più
felice, più giusta
anch'io in quel mondo che si snodava tra casa e scuola, tra
imposizioni e doveri, tra fallimenti e delusioni, e che ogni giorno
sembrava spingermi sempre più giù, nei miei personali inferi. La
voce di Kurt apriva uno spiraglio di luce in quel buio. Tanta gente
diceva che le sue canzoni spingevano alla depressione, invece io
credo che nascessero dalla depressione, in quella si muovessero e si
agitassero, fino a liberarsene, a strapparsela di dosso a morsi, e a
far rinascere l'anima che era stata ferita o oppressa. Io mi sentivo
così, ad ascoltarle in loop
mi sentivo rinascere. Avevo di nuovo voglia di combattere, voglia di
incazzarmi, voglia di vivere. Era come se un amico avesse accettato
di scendere nei miei inferi con me e poi mi avesse dato uno spintone
per uscirne, per risalire alla vita. Lui però c'era rimasto dentro,
non ne era uscito più, e il giorno in cui morì mi sentii un po' in
colpa.
Avremmo potuto fargli arrivare di più il nostro amore, la nostra
ammirazione, quanto gli eravamo grati, pensavo. Ma so che non sarebbe
bastato, perché persino l'amore dei cosiddetti fan
lo abbatteva, invece di risollevarlo. Si sentiva dentro una bugia,
dentro una finzione inutile, sentiva che la sua stessa musica non
valeva più niente, e noi non saremmo riusciti a smentirlo. Eravamo
troppo distanti, non potevamo comunicare davvero: lui sarebbe sempre
stato il cantante sul palco, a cui avremmo forse attaccato un volto e
un carattere a nostro piacimento, e noi saremmo stati i ragazzini
piangenti sotto al palco, magari a sprecare lacrime perché avremmo
voluto baciarlo o accarezzargli i capelli.
Mi
era sembrato di aver finalmente trovato un amico, anche se era solo
nella mia testa: lui era il mio segreto, la voce segreta che dentro
di me mi diceva di andare avanti e lottare. Le cose potevano andare
male e fare schifo, ma io avevo Kurt, sapevo che lui c'era, che
esisteva al mondo uno come lui, e che io non ero più così sola.
Quando se ne andò, morì un amico, e un po' si spense anche quella
parte di me che aveva creduto che fosse possibile che le cose
girassero diversamente, che la mia visione del mondo fosse un po' più
giusta. Avevamo perso uno di noi. E io per un attimo mi sentii di
nuovo troppo sola. Magari lo avevo idealizzato, non lo conoscevo
davvero, dopotutto, ma all'epoca non mi importava, conoscevo ciò che
aveva significato per me, e certo il mio senso di colpa veniva anche
da quello, dal fatto che per lui poteva essere stato un peso avere
addosso le aspettative di tanta gente. Ma quella era probabilmente
l'ultima delle ombre che lo possedevano, e noi non avremmo potuto
fare niente. Ancora adesso a ripensarci sento di dovermi convincere,
e sento quel freddo secco allo stomaco di quella giornata di aprile,
che mi sembrava fosse gennaio. Una gelida alba di gennaio, così
potrei riassumere quel giorno. Quando sentimmo la notizia, eravamo
tutti in cucina. Ricordo che Marco venne verso di me e mi abbracciò,
e cominciò a piangere. Elisa ci guardava a bocca aperta, senza
parole. Poi però non riuscì a trattenersi. Disse che non potevamo
piangere per uno che si era suicidato, che aveva scelto di morire.
Come se certe fossero davvero solamente scelte.
Mi dà fastidio il logico, cieco, stupido determinismo di certa
gente, che pensa che sia tutta solo una questione di volontà."Voleva
morire, ha scelto di morire", oppure "Ha scelto di
drogarsi, se l'è meritata la fine che ha fatto". Sarò
un'idiota, ma a me viene da provare compassione per chi ha fatto "una
brutta fine", compassione per tutto il dolore che deve aver
provato prima di fare quella fine. A volte la vita può essere un
disastro, e siamo capaci di fare del male a noi stessi, e alcuni, sì,
sono più vulnerabili, e quindi più bisognosi d'aiuto. Il giudizio
secco e sprezzante non è un aiuto, non aiuta nessuno. È solo una
pleonastica dimostrazione di spietatezza.
Un'ora
dopo che la notizia era stata trasmessa dai telegiornali, mi chiamò
a casa Carla.
-
Oddio, Arianna, ma hai sentito?
- Sì, guarda, non so cosa dire.
- Anch'io, non ho
parole. Che idiota, decidere di morire così...
Il mio
cuore saltò un battito. Sentirlo dire da Elisa era una cosa, era
coerente e prevedibile, non mi sarei certo aspettata una reazione
diversa. Ma sentire Carla che gli sputava addosso con tanta
freddezza, come se parlasse di qualcuno che non aveva significato
niente per lei, come se l'onta del suicidio avesse macchiato tutto
quello che Kurt aveva fatto di bello e di giusto, come se quel colpo
di pistola avesse cancellato tutto. Pensavo avrei trovato una spalla
di flanella su cui piangere, invece Carla sembrava voler mettere al
rogo le camicie coi quadri e voltare pagina. Non sembrava neanche
tradita, o offesa, da Kurt e dal suo gesto, che di fatto abbassava un
po' il volume della nostra speranza e di ciò in cui avevamo creduto.
Lei non era una fedele fan risentita, era una che passava e aveva
liquidato la cosa con due frasi fatte sul suicidio:"Chi si
suicida è un coglione".
Mi sentii tradita io, a quel punto, da lei, che tanto mi era sembrata
convinta e appassionata delle cose che diceva, delle cose che
scriveva e ascoltava. Me li aveva fatti conoscere lei i Nirvana,
e adesso gli voltava le spalle, ci voltava le spalle, solo per
non rischiare di accarezzare i lati più oscuri delle cose? Allora
tutto quel sangue, quel buio e quei cimiteri erano solo stronzate?
Erano distrazioni, o peggio, pose. Non erano, come forse li avevo
percepiti io, modi per affrontare le paure e i lati oscuri. Appena un
lato oscuro davvero emergeva tutti a farsi indietro e a dire: "Io
stavo solo scherzando!". Era solo un gioco, la letteratura è
finzione. La letteratura per me è un'occasione.
Puoi riuscire a dare risposte vere a domande e bisogni reali, anche
se le risposte e le domande possono essere camuffate, travestite, mai
pronunciate, e ci si può ricamare un po' attorno.
Lei invece aveva ricamato e basta. Aveva fatto una
distinzione netta tra realtà e finzione, e non avrebbe permesso che
una sconfinasse nell'altra; non si sarebbe mai chiesta perché si era
ucciso, o se noi avremmo potuto fare qualcosa, o che conseguenze
avrebbe avuto la sua morte. Lei era già passata oltre. Lui aveva
fatto una cazzata, la bolla di finzione si era sgonfiata, la realtà
non era concepibile, la mia amica aveva scavalcato il suo cadavere ed
era andata oltre. A pensarci oggi, me lo chiedo se non fosse lei ad
avere ragione, ed io una ragazzina ingenua che si faceva
troppe paranoie. Ma mi piace tener fede per stavolta a quello che
ero, una ragazzina sincera, onesta, arrabbiata e triste.
Sono
passati ventisei anni, ed è difficile immaginarti diverso: i capelli
biondi scompigliati, i maglioni infeltriti, i jeans sdruciti, l'aria
disfatta, come se ogni passo ti costasse fatica e ogni sguardo lo
sentissi addosso, pesante più di un cappotto bagnato. Difficile
dimenticare i tuoi occhi: a volte impauriti e sperduti, a volte
strafottenti, penetranti come spilli. Difficile spiegare il
sortilegio della tua musica, il potere che ha di guarirmi, anche
quando le parole sono simboli che non capisco, frammenti di
un'allucinazione, schegge incastrate al loro posto.
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