domenica 5 aprile 2020

5 Aprile 1994




Verso i sedici anni mi ero incupita molto, un po' per fatti successi a scuola e a casa, un po' per mie personali paranoie. Era iniziato quello che Carla, la mia compagna di banco, definiva "il mio periodo grunge". Diceva che anche lei era nel suo periodo grunge, ed era contenta di poterlo condividere con qualcuno. Sottobanco mi aveva passato le cassette dei Nirvana e i suoi taccuini di poesie, dicendo che dovevo leggerle e dirle cosa ne pensavo. Mi ero sentita lusingata, era incredibile che avesse scelto me per condividere qualcosa di così personale. Ancora non eravamo tanto amiche...Forse l'aveva fatto perché io avevo otto in italiano, o forse le ispiravo fiducia, sapeva che non avrei riferito a nessuno, nemmeno sotto pentothal, i segreti o le stranezze che avrei potuto leggere. O forse pensava che ero l'unica abbastanza strana da non trovare strano nient'altro, se non le cose "normali", che facevano schifo a tutte e due. Comunque, di cose un po' "strane", a voler dare giudizi, ne trovai. Erano poesie piene di immagini di morte, così bizzarre da risultare un po' ridicole: corvi decapitati, cadaveri rianimati con l'acqua da "pompieri funebri", case stregate dove riecheggiavano risate degli agenti immobiliari uccisi da proprietari scontenti, e poi sangue, fantasmi, cripte, cimiteri...Oddio, forse ero strana davvero, perché in fin dei conti non le trovavo tanto male. Sebbene non fosse chiaro il suo intento, se incutere terrore o fare della parodia, in tutti i casi il risultato era...interessante. Le dissi che le sue poesie mi piacevano, e non stavo mentendo, le trovavo piene di immagini che restavano impresse, immagini cariche, forse troppo, ecco perché diventavano caricature, ma ad aggiustare un po' il tiro, ad andarci giù con la mano un po' meno pesante, potevano essere davvero belle.
- E le cassette, le hai ascoltate? Cosa ne pensi?
Le cassette dei Nirvana le avevo ascoltate, dal walkman di mio fratello, e caspita, mi erano piaciute. Mi sembrava di non aver mai sentito musica del genere, e al tempo stesso era come se fosse sempre esistita, perché era così giusta, scorreva così naturale, che doveva essere esistita da sempre.                Era come tutto il contenuto della mia mente, o della mia anima, espresso in musica: dentro di me urlava per farsi capire, e io lo capivo solo in parte, e lo sapevo esprimere solo piangendo, ma quella musica erano le mie lacrime, le mie urla. Mettevo su le cuffie, premevo play e cominciava la mia catarsi. Dopo mi sentivo più libera, più felice, più giusta anch'io in quel mondo che si snodava tra casa e scuola, tra imposizioni e doveri, tra fallimenti e delusioni, e che ogni giorno sembrava spingermi sempre più giù, nei miei personali inferi. La voce di Kurt apriva uno spiraglio di luce in quel buio. Tanta gente diceva che le sue canzoni spingevano alla depressione, invece io credo che nascessero dalla depressione, in quella si muovessero e si agitassero, fino a liberarsene, a strapparsela di dosso a morsi, e a far rinascere l'anima che era stata ferita o oppressa. Io mi sentivo così, ad ascoltarle in loop mi sentivo rinascere. Avevo di nuovo voglia di combattere, voglia di incazzarmi, voglia di vivere. Era come se un amico avesse accettato di scendere nei miei inferi con me e poi mi avesse dato uno spintone per uscirne, per risalire alla vita. Lui però c'era rimasto dentro, non ne era uscito più, e il giorno in cui morì mi sentii un po' in colpa. Avremmo potuto fargli arrivare di più il nostro amore, la nostra ammirazione, quanto gli eravamo grati, pensavo. Ma so che non sarebbe bastato, perché persino l'amore dei cosiddetti fan lo abbatteva, invece di risollevarlo. Si sentiva dentro una bugia, dentro una finzione inutile, sentiva che la sua stessa musica non valeva più niente, e noi non saremmo riusciti a smentirlo. Eravamo troppo distanti, non potevamo comunicare davvero: lui sarebbe sempre stato il cantante sul palco, a cui avremmo forse attaccato un volto e un carattere a nostro piacimento, e noi saremmo stati i ragazzini piangenti sotto al palco, magari a sprecare lacrime perché avremmo voluto baciarlo o accarezzargli i capelli.

Mi era sembrato di aver finalmente trovato un amico, anche se era solo nella mia testa: lui era il mio segreto, la voce segreta che dentro di me mi diceva di andare avanti e lottare. Le cose potevano andare male e fare schifo, ma io avevo Kurt, sapevo che lui c'era, che esisteva al mondo uno come lui, e che io non ero più così sola. Quando se ne andò, morì un amico, e un po' si spense anche quella parte di me che aveva creduto che fosse possibile che le cose girassero diversamente, che la mia visione del mondo fosse un po' più giusta. Avevamo perso uno di noi. E io per un attimo mi sentii di nuovo troppo sola. Magari lo avevo idealizzato, non lo conoscevo davvero, dopotutto, ma all'epoca non mi importava, conoscevo ciò che aveva significato per me, e certo il mio senso di colpa veniva anche da quello, dal fatto che per lui poteva essere stato un peso avere addosso le aspettative di tanta gente. Ma quella era probabilmente l'ultima delle ombre che lo possedevano, e noi non avremmo potuto fare niente. Ancora adesso a ripensarci sento di dovermi convincere, e sento quel freddo secco allo stomaco di quella giornata di aprile, che mi sembrava fosse gennaio. Una gelida alba di gennaio, così potrei riassumere quel giorno. Quando sentimmo la notizia, eravamo tutti in cucina. Ricordo che Marco venne verso di me e mi abbracciò, e cominciò a piangere. Elisa ci guardava a bocca aperta, senza parole. Poi però non riuscì a trattenersi. Disse che non potevamo piangere per uno che si era suicidato, che aveva scelto di morire. Come se certe fossero davvero solamente scelte. Mi dà fastidio il logico, cieco, stupido determinismo di certa gente, che pensa che sia tutta solo una questione di volontà."Voleva morire, ha scelto di morire", oppure "Ha scelto di drogarsi, se l'è meritata la fine che ha fatto". Sarò un'idiota, ma a me viene da provare compassione per chi ha fatto "una brutta fine", compassione per tutto il dolore che deve aver provato prima di fare quella fine. A volte la vita può essere un disastro, e siamo capaci di fare del male a noi stessi, e alcuni, sì, sono più vulnerabili, e quindi più bisognosi d'aiuto. Il giudizio secco e sprezzante non è un aiuto, non aiuta nessuno. È solo una pleonastica dimostrazione di spietatezza.
Un'ora dopo che la notizia era stata trasmessa dai telegiornali, mi chiamò a casa Carla.
- Oddio, Arianna, ma hai sentito? 
 - Sì, guarda, non so cosa dire.
- Anch'io, non ho parole. Che idiota, decidere di morire così...
Il mio cuore saltò un battito. Sentirlo dire da Elisa era una cosa, era coerente e prevedibile, non mi sarei certo aspettata una reazione diversa. Ma sentire Carla che gli sputava addosso con tanta freddezza, come se parlasse di qualcuno che non aveva significato niente per lei, come se l'onta del suicidio avesse macchiato tutto quello che Kurt aveva fatto di bello e di giusto, come se quel colpo di pistola avesse cancellato tutto. Pensavo avrei trovato una spalla di flanella su cui piangere, invece Carla sembrava voler mettere al rogo le camicie coi quadri e voltare pagina. Non sembrava neanche tradita, o offesa, da Kurt e dal suo gesto, che di fatto abbassava un po' il volume della nostra speranza e di ciò in cui avevamo creduto. Lei non era una fedele fan risentita, era una che passava e aveva liquidato la cosa con due frasi fatte sul suicidio:"Chi si suicida è un coglione". Mi sentii tradita io, a quel punto, da lei, che tanto mi era sembrata convinta e appassionata delle cose che diceva, delle cose che scriveva e ascoltava. Me li aveva fatti conoscere lei i Nirvana, e adesso gli voltava le spalle, ci voltava le spalle, solo per non rischiare di accarezzare i lati più oscuri delle cose? Allora tutto quel sangue, quel buio e quei cimiteri erano solo stronzate? Erano distrazioni, o peggio, pose. Non erano, come forse li avevo percepiti io, modi per affrontare le paure e i lati oscuri. Appena un lato oscuro davvero emergeva tutti a farsi indietro e a dire: "Io stavo solo scherzando!". Era solo un gioco, la letteratura è finzione. La letteratura per me è un'occasione. Puoi riuscire a dare risposte vere a domande e bisogni reali, anche se le risposte e le domande possono essere camuffate, travestite, mai pronunciate, e ci si può ricamare un po' attorno. Lei invece aveva ricamato e basta. Aveva fatto una distinzione netta tra realtà e finzione, e non avrebbe permesso che una sconfinasse nell'altra; non si sarebbe mai chiesta perché si era ucciso, o se noi avremmo potuto fare qualcosa, o che conseguenze avrebbe avuto la sua morte. Lei era già passata oltre. Lui aveva fatto una cazzata, la bolla di finzione si era sgonfiata, la realtà non era concepibile, la mia amica aveva scavalcato il suo cadavere ed era andata oltre. A pensarci oggi, me lo chiedo se non fosse lei ad avere ragione, ed io una ragazzina ingenua che si faceva troppe paranoie. Ma mi piace tener fede per stavolta a quello che ero, una ragazzina sincera, onesta, arrabbiata e triste.

Sono passati ventisei anni, ed è difficile immaginarti diverso: i capelli biondi scompigliati, i maglioni infeltriti, i jeans sdruciti, l'aria disfatta, come se ogni passo ti costasse fatica e ogni sguardo lo sentissi addosso, pesante più di un cappotto bagnato. Difficile dimenticare i tuoi occhi: a volte impauriti e sperduti, a volte strafottenti, penetranti come spilli. Difficile spiegare il sortilegio della tua musica, il potere che ha di guarirmi, anche quando le parole sono simboli che non capisco, frammenti di un'allucinazione, schegge incastrate al loro posto.



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