giovedì 24 dicembre 2020

Le luci di Natale




Le luci di Natale abbracciano le ringhiere dei balconi e punteggiano le finestre, la città si trasforma in una mappa illuminata che osservo con incanto, le speranze si accendono a intermittenza. 
Nel palazzo di fronte si è trasferita una nuova coppia, sulla trentina, con un bimbo piccolissimo; sono all'ultimo piano e sono stati i primi a mettere le luci, due stringhe su ogni terrazzo, luce calda fissa. 
Ogni tanto li sento litigare: lei lo sgrida perché lui ha sbagliato a comprare qualcosa, o gli dice che è l'ultima volta che si lascia convincere a fare qualcosa, o che il bambino la sta facendo impazzire e da sola non ce la fa a fare tutto. Potrebbero usarla per una pubblicità progresso che inviti la gente a restare single per sempre e a non fare figli. Però il bambino è adorabile con quel suo cappottino taglia zero, una cuffia di lana grossa in cui la sua faccina sprofonda, e quei passetti incerti che ti tengono col fiato sospeso. Gli inquilini di prima non mettevano mai luci a Natale, non mi stavano particolarmente simpatici, erano di quelli che salutano solo gli adulti e mai i bambini che sono con loro. Uno scambio di parole cortese, commenti sul tempo, la salute, la politica, ma neanche uno sguardo sotto al metro e cinquanta. Se ne sono andati poco tempo fa, da un giorno all'altro, senza salutare. 
La ragazza del terzo piano che fa sempre ginnastica in giardino ha decorato il balcone con lucine piccole come spilli, bianche e blu, che lampeggiano. Non mi ricordo mai come si chiama, credo Ilenia, o Ilaria. Lei una volta mi ha chiamato Sara, un'altra volta Giulia, quindi direi che siamo pari e patta.
Al secondo piano, Oscar ha appeso il suo Babbo Natale grassoccio che si arrampica e addobbato quel suo abete di plastica striminzito che fa quasi rimpiangere Spelacchio. Eppure, anche ai suoi addobbi tradizionali un po' malconci ci siamo abituati, e tiriamo un sospiro di sollievo quando li vediamo ricomparire. Quando ero piccola, Oscar era gentilissimo con me; non ha potuto avere figli, ma avrebbe voluto, e credo sarebbe stato uno di quei padri scanzonati che partecipano con convinzione a tutti i giochi che gli proponi, anche ai più assurdi. Come papà, che una volta ha accettato con entusiasmo persino di farsi truccare, quando ero nel periodo estetista&parrucchiera. Erano i primi anni novanta, i discorsi gender fluid non erano esattamente all'ordine del giorno.
Al primo piano, invece, abitano i Maiello, marito e moglie attorno ai settanta, ma vispi e vivaci come ci sogneremmo tutti di essere da vecchi. Sono una coppia da film, lui alto e affascinante come Ottavio Missoni, lei bella e dolce come Rosita. I Missoni sono una delle mie personali coppie ideali, di quelle che avrei voluto intervistare per sapere quale fosse il loro segreto. I Maiello vengono al secondo posto.  Si sono trasferiti qui da Napoli qualcosa come quarant'anni fa, così il loro accento è un ibrido ipnotico di napoletano ed emiliano. Quando parlano li ascolti rapita, sarà anche per il loro carisma, perché sono una di quelle coppie adorabili che finiscono uno le frasi dell'altro, ma non in un modo stucchevole che risveglia gli istinti omicidi, in modo tenero e affascinante. A guardarli ti viene da credere che esista ancora un po' di magia. I Maiello con le luci non si risparmiano mai: steli luminosi cadono dall'alto come una cascata cosparsa di stelle e piccoli punti luce decorano tutte le curatissime piantine della signora Agata. È un piacere andare a trovarla per un tè e una fetta di pandoro; non ti rovescerà mai parole addosso, solo per il gusto di poterle pronunciare, sa ascoltare e leggerti, anche soltanto con lo sguardo e il sorriso. Chiara, che abita nell'appartamento di fronte a quello dei Maiello, è davvero fortunata; ricordo di essere stata un po' gelosa di lei, quando si è trasferita qui. Adesso sta preparando due esami per la sessione invernale e ha deciso di non tornare a casa per Natale, perché dice che lì ci sono troppe distrazioni. Credo che qui abbia trovato un pezzetto di famiglia che non ha mai avuto, e cerchi in tutti i modi di tenerselo stretto. A volte succede di riconoscersi in alcune persone e di sentire che finalmente loro ti vedono come sei, o, perlomeno, come vorresti essere visto, come diceva Fitzgerald parlando di Gatsby e della sua abilità nel trattare gli altri, nel metterli a loro agio e nel farli sentire speciali. Chiara non ha messo luci alle finestre, solo un alberello di piccola taglia sul davanzale, con palline colorate e una stella dorata sulla punta. Non è particolarmente allegro, ha quell'aspetto dimesso che nei giorni di festa come questi potrebbe spingermi alle lacrime: è quello che io chiamo "effetto Piccolo Timmy", e può essere devastante.  
Al piano terra abitano i signori Berzieri, e loro, puntuali come ogni Natale, hanno addobbato con statuine del presepe e con la stella cometa fluorescente, luminaria che potreste trovare tranquillamente in una Chapel of Love di Las Vegas, e che con il presepe crea un effetto quantomeno insolito.
Quelli che vivono accanto, invece, si sono adoperati a ricoprire i vetri di tutte le finestre con fiocchi di neve ritagliati dalla carta; il risultato è molto più carino di quanto si possa immaginare. I Gallera, dall'altro lato, noti per la loro tendenza all'esagerazione, hanno tirato fuori la solita slitta con le renne da appendere al muro, le cui lucine non solo lampeggiano, ma lo fanno al ritmo di Jingle Bells. Di Babbi Natale rampicanti loro ne hanno tre o quattro, e stavolta addirittura hanno scovato la neve finta con cui decorare il tetto e i profili delle finestre. 
All'ultimo piano, invece, Tiziana è rimasta sola. Quest'anno non accenderà luci per Natale, ma quando la notte è buia e vede quelle degli altri, non può fare a meno di sorridere. 





mercoledì 23 dicembre 2020

Un passo alla volta




Il sole è già tramontato e la città è avvolta da nuvole allungate e rossicce. Per le strade la gente cammina mani in tasca e mascherina, dai marciapiedi rimbalzano i "Buone feste!", "Salutami i tuoi!", "Auguri!", e anche qualche "Speriamo bene!". Cammino anch'io mani in tasca e mascherina, un volto senza volto tra i tanti; mi sono accorta di gesticolare di più, di essere costretta ad alzare un po' la voce, di sentirmi più sicura nel parlare quando a parlare sono gli occhi. 
Lente di ingrandimento, cassa di risonanza, specchio ingranditore. Chi è gentile sembra volerlo essere di più, come se ogni sorriso cercasse di riscattarsi dal peso di troppi giorni tristi; chi è scontroso non può fare a meno di esserlo di più, perché la sua rabbia è troppa da contenere. Mi guardo intorno e mi guardo dentro e non so dire dove veda più confusione: ci sono attimi di calma apparente, al confine con la negazione, e poi ogni tanto c'è la realtà che ti prende a morsi. Come sempre, è più il tempo che passo a riflettere di quello che passo ad agire, e riflettere è un termine troppo nobile per quello che poi, più propriamente, è rimuginare. Mancano solo due giorni a Natale e sono qui a rimuginare.
Quest'anno farò io il cenone, e se avete ricette da consigliare questo è il momento di tirarle fuori perché ho i surgelati che mi guardano ammiccando dal congelatore, e non è facile per un surgelato ammiccare, capite che la situazione è drammatica. Ho parcheggiato la macchina a chilometri di distanza per non pagare le righe blu, ma anche perché ho bisogno di camminare. Le vie del centro sono illuminate come sempre. C'è la fila fuori dalla pescheria: signori con i capelli bianchi e la coppola di feltro commentano in dialetto le novità del giorno, pressappoco identiche a quelle del giorno prima. Non sopporto più nemmeno il dialetto di questa città. A volte mi sento un fantasma che torna a guardare la sua vita passata e mi assale una tristezza indicibile, che però io cercherò comunque di dire e descrivere, pur di non lasciarla lì nel petto a ristagnare come un acquitrino. 
La gelateria fa l'asporto, ecco, questa è una notizia capace di rincuorarmi. Dei ragazzini sistemati nelle pose più improbabili sui muretti stanno mangiando il gelato e alternano parole e bestemmie.
Continuo a camminare e il freddo sembra non ferire, i pensieri mi arrivano dai contorni più netti, una lucidità che ho solo in alcuni momenti, purtroppo. Mi ero promessa tante cose, mi chiedo se farò in tempo. Mi chiedo soprattutto quando capirò che il tempo è questo istante, che non ci sono davvero giorni di attesa prima di un evento, giorni inutili, giorni sospesi. Queste non sono le prove prima della vita vera, questa è già la vita vera, e io la sto sprecando nella paura e nell'attesa. Se solo fare liste bastasse per mettere davvero le cose in ordine, a quest'ora avrei conquistato il mondo.  
– Attenzione! – un signore mi passa accanto urtandomi con pacchi e pacchetti. Decido di fermarmi in libreria per mettere un po' a riposo le angosce. Le librerie per me sono il luogo delle possibilità, un posto di fermento e pace insieme: i libri non ti aggrediscono, non ci sono cartelli che strillano slogan e offerte imperdibili, luce sparata o musica ingombrante. I libri hanno una loro dignità e riservatezza, una loro eleganza. Hanno tanto da offrirti ma non si impongono: rimangono lì, ti aspettano, si fanno trovare quando tu li cerchi. E non è detto che ti capiti il libro giusto al momento giusto, però quando questo succede, l'episodio è da aggiungere alla lista dei piccoli momenti di felicità. Una di quelle cose che ti fanno credere che ci sia ancora magia e bellezza, e che non sei mai davvero solo. Passeggio tra gli scaffali e mi chiedo se oggi farò qualche incontro magico, se la copertina giusta saprà attrarmi a sé, se troverò pagine e parole capaci di portarmi via da qui, di farmi respirare un po' meglio. Prendo in mano un libro di poesie di Chandra Livia Candiani, che ho conosciuto con il meraviglioso libro Il silenzio è cosa viva, e decido che verrà a casa con me. Poi scelgo una raccolta di racconti che mi ha conquistata con poche parole ben appuntite nella quarta di copertina. Infine, c'è il libro di Ambra, non posso non prenderlo. Mi ricordo anche dei diari di Kurt Cobain da regalare a mio fratello, alibi perfetto. 
La libreria è popolata ma non affollata, respira piano e il suo battito è lento ma costante. La lascio con un sorriso rinfrancato, è ora di tornare a casa. 





martedì 22 dicembre 2020

Omini di pan di zenzero









Le origini degli omini di pan di zenzero sono piuttosto misteriose e affondano le loro radici nell'Inghilterra di Elisabetta I. Tra Europa e America, il mito sopravvive e ancora oggi il profumo di pan di zenzero riempie molte case nei giorni che precedono il Natale.

Eccoci di nuovo a preparare i biscotti di Natale; adoro questo periodo dell'anno. Non fraintendetemi, amo essere libera e senza legami, andare dove mi pare senza dover dare giustificazioni a nessuno.    Però c'è qualcosa nell'aria di dicembre che risveglia il desiderio di rivedere volti familiari, di ritornare a casa. Con l'età sto diventando maledettamente nostalgica. Forse è solo il freddo che mi spinge ogni volta a tornare. Sì, mettiamola così: a dicembre fa freddo e io il freddo non lo sopporto proprio. 

Ingredienti:
-500 g di farina 00
-160 g  di burro
-150 g di miele
-180 g di zucchero di canna
-2 cucchiaini di lievito per dolci
-180/200 g di acqua 
-mezzo cucchiaino di cannella in polvere
-tre cucchiaini di zenzero in polvere
-mezzo cucchiaino di chiodi di garofano in polvere
-mezzo cucchiaino di cardamomo in polvere

Ecco Claudia che fa partire la playlist di canzoni natalizie. Personalmente preferisco il jazz, ma non mi dispiace riascoltare gli Wham! o Mariah Carey. Luca la prende in giro perché dice che i suoi gusti musicali sono osceni; se fosse per lui ascolteremmo death metal pure a Natale. Mi piace quando litigano e si rincorrono per casa. Sandra li sgrida, ma si vede che piace anche a lei. 

In una pentola, scaldate l'acqua con il miele, lo zucchero e le spezie. Mescolate ogni tanto finché non arriva a ebollizione. Spegnete il fuoco e unite il burro; quando il burro è completamente sciolto aggiungete la farina e il lievito. Mescolate bene fino a ottenere un impasto omogeneo. 
Fate una palla, avvolgetela nella pellicola e, quando sarà fredda, mettetela in frigo per una notte.

Aspettare è la parte più fastidiosa, per me. Sandra dice sempre che per le cose belle bisogna saper aspettare, ma io credo che l'attesa le inquini. Non sarebbe molto meglio avere tutto ciò che vogliamo esattamente quando lo vogliamo? Il tempo di attendere che arrivi e già ci è passata la voglia e desidereremmo qualcos'altro. Certo, forse alcune cose possono fare eccezione, bisogna solo decidere quali. Sento Claudia che parla al cellulare con Marco, chiusa nella sua stanza. Lui non ha fatto in tempo a raggiungerla per Natale e potranno rivedersi a gennaio; quella è una cosa per cui lei è disposta ad aspettare. Chissà cosa ci trova in quel tipo. 

Il giorno dopo prendete l'impasto: basterà manipolarlo un po' per ammorbidirlo. Stendetelo con il mattarello a uno spessore di tre millimetri. Scegliete dei tagliabiscotti a forma di omino. Cuocete in forno già caldo a 180° per dieci-dodici minuti. Se volete, con questi biscotti potete decorare anche il vostro albero di Natale: prima della cottura, praticate un buco con una cannuccia all'apice del biscotto, successivamente con un nastrino potete annodare i biscotti ai rami. Potete anche decorarli con della glassa bianca e delle perline di zucchero argentate. 

La cucina è più calda e accogliente del solito, quando ci sono i biscotti nel forno. Mi accovaccio sulla sedia accanto a Sandra e mi lascio accarezzare.
– Tranquilla, Amelia. Per te ho comprato i biscotti che ti piacciono. 
Non vedo l'ora di sentire il ticchettio dei miei biscottini che riempiono la ciotola. Dopotutto è così piacevole quando qualcuno non si dimentica di te. 





lunedì 21 dicembre 2020

La fine di tutto



– E così domani parti.                                                                                                                              Lara mi guardava con i suoi occhioni azzurri, le braccia incrociate, e l'aria sgualcita di chi non credeva sarebbe mai arrivato davvero quel momento. Se mi avesse fissato ancora un po', non sarei riuscito a partire, il giorno dopo. Così continuavo a destreggiarmi tra scatoloni e borse da viaggio, stando ben attento a non alzare lo sguardo.                                                                                                                   – Ci siamo. Domani.                                                                                                                                   – Credevo che alla fine saresti rimasto. Questo sarà il Natale peggiore della mia vita.                              Pensai che fosse impazzita, cosa le aveva detto la testa, per tendermi un agguato simile? Una mossa così sinistra non me la sarei mai aspettata da quel faccino angelico. Continuava a guardarmi, gli occhi un po' lucidi, le labbra rosse che mordicchiava freneticamente. Avevo alzato lo sguardo un'altra volta, e l'avevo vista, sul punto di piangere.                                                                                                             – Potresti ancora rimanere – aggiunse. E io cominciai a sentire qualcosa che mi si incrinava nel petto, e iniziava ad accartocciarsi.  – Abbiamo tutto ciò che ci serve per stare vicini e invece ci allontaniamo. Se ci perdiamo noi, davvero, è la fine.                                                                                                             – La fine di tutto? – abbozzai un sorriso del tutto fuori luogo.                                                                    Lei mi rispose seria: – La fine di tutto.                                                                                                      Un racconto che avevo scritto due anni prima si intitolava proprio così; era una sciocchezza fantascientifica condita da una storia d'amore improbabile tra un alieno e un'umana. Lei fu la prima a leggerlo e la prima a trovare bello qualcosa che avevo scritto. “Non ho detto bello, ho detto carino. Dovresti lavorarci un po' su”. E anche se dovevo lavorarci davvero un po' su, e probabilmente riscrivere l'inizio, lo svolgimento e la fine, il fatto che lei l'avesse trovato perlomeno carino mi aveva dato la spinta per continuare a provarci. Magari alcuni riescono davvero a motivarsi senza l'aiuto di nessuno, si guardano allo specchio, ripetono le loro affermazioni, e riescono a non sentirsi stupidi e soli. Ma io ho sempre avuto bisogno che qualcun altro credesse in me, che scorgesse nei miei occhi un destino che io non sapevo vedere, e me lo indicasse, perché, poi, l'avrei seguito, se solo avessi avuto un punto di partenza, se qualcuno avesse fatto per me il primo passo.                                                                      Lara aveva fatto per me un sacco di primi passi. Mi aveva fatto assaggiare cibi nuovi, mi aveva mostrato quali fossero i libri giusti da leggere, i film giusti da vedere, la giusta musica da ascoltare, mi aveva convinto, nonostante le mie paure, ad andare al mare, mi aveva insegnato a dare un nome alle cose. E, cosa ancora più sorprendente, mi aveva mostrato cose di me stesso che non vedevo, punti ciechi che avrei continuato a ignorare, come ignori qualcosa che ti appartiene da sempre, finché qualcun altro non lo nota e te lo indica. Grazie a lei avevo capito che nell'incontro con l'altro conosciamo meglio noi stessi, ci incastriamo e ci scontriamo, possiamo smussare o acuire gli spigoli, e arriva sempre un momento in cui ci troviamo a chiederci se ne valga la pena. Non importava quanto fossero simmetrici i suoi lineamenti, quanto fosse ipnotico il suono della sua voce, l'allegria della sua risata, non importavano nemmeno i suoi occhioni azzurri. Più di una volta, mi ero chiesto se ne valesse la pena. Avevo dubitato, vagato altrove con lo sguardo, ma poi, quando pensavo a lei, mi accorgevo che qualcosa nel petto iniziava a scaldarsi, i polmoni sembravano respirare meglio, lo sguardo si apriva.      Mi ero innamorato. Avevo dovuto aspettare secoli, ma alla fine potevo dire con certezza e anche con un po' di orgoglio di essermi innamorato. E nonostante questo, ero pronto a lasciarla lì, in quella casa vuota, in quei pomeriggi bui già dalle cinque, in quell'anno per lei così difficile. Mi sentivo ignobile e ingrato. Un egoista che si preoccupava solo del suo futuro, incapace di pensare agli altri, forse, persino, incapace di amare. Non meritavo il suo amore, avrebbe dovuto dimenticarmi e sostituirmi con un uomo qualunque, non appena me ne fossi andato. Quanta sfrontatezza c'era nello sperare che lei stesse ad aspettarmi per sempre, nel desiderare le sue lacrime? Ero pure sadico, oltre che egoista. Avrei voluto saperla in quell'appartamento spoglio, in quelle giornate fatte di buio, a ridosso del Natale che per lei era tanto importante, che stringeva al petto la mia foto sfocata e piangeva copiose lacrime in attesa del mio ritorno? Meritavo solo disprezzo. Lo sentivo addosso tutto quel disprezzo per me stesso, era come un prurito da cui non potevo liberarmi, più mi grattavo più aumentava, fino a diventare un dolore insopportabile, fino a che i graffi mi ricoprivano la pelle e cominciavano a bruciare.                                Eppure, il giorno dopo, sarei partito. Pianeta K-224, viaggio di sola andata, nessun ritorno previsto per i prossimi duecentocinquant' anni. Se anche avessi rimesso piede sulla Terra, non l'avrei più ritrovata.      Quei tre anni di esplorazione del pianeta Terra  si erano rivelati molto più proficui di quanto avessimo previsto, avevo raccolto centinaia di dati, avrei dovuto solo riordinarli nei nostri database, una volta tornato a casa, e archiviare l'esperienza con soddisfazione per il lavoro svolto nei tempi stabiliti.            Guardavo i lucciconi nei suoi occhi azzurri e ripensavo alla prima volta che avevo visto le lacrime, a come mi ero spaventato, in un primo tempo, e a come mi ero sentito inadeguato, dopo, per la mia imbarazzante incapacità di piangere.                                                                                                            Le accarezzai il viso e mi sforzai di guardarla negli occhi: – Non credo sarà possibile comunicare, una volta che sarò arrivato. Se mi scoprissero potrebbe essere pericoloso, anche per te. Voglio che questo ti sia chiaro, che non pensi che dipenda da me.                                                                                              – Lo so, me l'hai spiegato tante volte.                                                                                                            – Non vorrei che finisse così.                                                                                                                        La strinsi forte a me, lei nascose il viso nel mio collo. Nello specchio di fronte si rifletteva la mia immagine umana, e vidi una lacrima rigarmi la guancia. 




domenica 20 dicembre 2020

Come passerai il Natale? (parte 2)

 


Dopotutto non è il primo Natale che passerò da sola. C'è stato l'anno in cui Riccardo mi ha lasciata con un sms due giorni prima della Vigilia, trauma da cui mi sono ripresa con una dieta a base di tartufini al cioccolato e dopo aver realizzato con sollievo che non avrei dovuto passare la vita con qualcuno dal nome così spocchioso. Poi c'è stato il Natale a Cortina con trenta persone, che ricordava un filmaccio di Natale non solo nella forma ma anche nei contenuti. Giorni a fissare il mio riflesso nella tazza di cioccolata calda, mentre tutti erano fuori a sciare; sere a fissare la fiamma del camino sperando che qualcuno dei miei compagni di viaggio prendesse fuoco, possibilmente quello che tutti chiamavano Lele e che tra i suoi buoni propositi aveva sicuramente inserito quello di urtarmi il sistema nervoso con battutine sarcastiche e triviali doppi sensi. E come dimenticare il primo Natale che ho passato senza parlare con mia sorella, un evento che pensavo non si sarebbe mai verificato, al pari di un'invasione aliena o della mia rinuncia agli zuccheri semplici. Cose più grandi di me che la mente si affatica a pensare.                  

Perché dire di essere soli è ancora una confessione scabrosa, imbarazzante, o deprimente? Non tutti quando siamo soli ci ritroviamo a fissare il vuoto e a dividerci col gatto una scatoletta di tonno.              La mia solitudine è spesso silenziosa, ma può esserci gioia nel silenzio, il silenzio è beatitudine, il silenzio è fare spazio. Non puoi sapere quante cose affioreranno fino a quando non farai loro spazio, quante cose vecchie ritroverai e quante cose nuove si presenteranno, sentendosi invitate. È un po' come quando fai ordine negli armadi e ritrovi cimeli o ti liberi di ciò che non ti occorre più e ti compiaci di lasciare uno spazio per il vuoto, come consiglia l'Hatha-Yoga Pradipika. E poi la solitudine non è solo manutenzione, ma piacere. Come prepararsi un rooibos alla vaniglia o una cioccolata calda con panna e guardare una puntata della propria serie tv del cuore, o riguardare il proprio film preferito e lasciarsi assorbire da ogni scena, oppure sfogliare le pagine di un libro che stai amando. E poi, insomma, ognuno ha il suo inventario di cose che ama fare da solo e non è che le devo condividere tutte, anzi il punto è proprio questo, qui si annida il piacere: posso tenermele per me, non sono costretta a condividerle con nessuno o ad avere l'approvazione o il biasimo di nessuno. La condivisione è piacevole solo se è una scelta, non se è una costrizione.

– Silvia! Silvia! – una voce mi chiama da lontano. Ah ma certo, è mia madre! Persa nei miei pensieri mi sono completamente dimenticata che colei che mi generò è ancora al telefono a parlare da sola senza accorgersi della mia assenza.                                                                                                                        – Sì mamma, dimmi.                                                                                                                                      – Allora, tu cosa ne pensi?                                                                                                                            Ci sono momenti nella mia vita in cui vorrei un pulsante rewind. A pensarci bene, però, sono più i momenti in cui vorrei mettere in pausa o rallentare la velocità. Ecco altre occasioni in cui il silenzio viene in aiuto.                                                                                                                                                – Beh, cosa ne penso...Diciamo che in generale sono d'accordo con te.                                                      – Meno male, solo tu mi capisci. Ormai con i tuoi fratelli non mi ci trovo più, mi sei rimasta solo tu.      Fingerò di non sapere che probabilmente ha detto la stessa cosa a mio fratello un paio d'ore prima o il giorno prima, e incasso il complimento sperando di non aver appena acconsentito a qualcosa di cui dovrò pentirmi.                                                                                                                                              – Allora siamo d'accordo. Ti aspetto. Del resto chi vuole stare da solo a Natale.     




sabato 19 dicembre 2020

Come passerai il Natale? (parte 1)

 


Al telefono, mia madre mi chiede di trovare un modo per raggiungerla a Natale. Ci dividono mille chilometri e un decreto-legge, sono in una botte di ferro.                                                                            – Mamma, farò il possibile, ma sai com'è, sarà dura.                                                                                  – Matti ha iniziato a chiedere di te, dice: “Ma la zia verrà con la slitta di Babbo Natale?”                 Devo ammettere che le sue imitazioni dei bambini nella fascia zero-sei anni sono sempre impeccabili, sarà che quella è pressappoco la sua età emotiva.                                                                                       Il mio nipotino ha già fatto cinque anni. O sei? No, aspetta, sono quattro. Sì, duemilasedici. Parla un sacco, sono i geni di mia madre, è certo, e anche se confonde le effe e le esse, dice la erre al posto della vi, e ogni tanto balbetta, il cinquanta per cento del tempo si riesce quasi a capire quello che sta dicendo. Il più delle volte però mi ricorda quei vecchietti che mugugnano tra sé e sé e non sai mai se ti stanno mandando un anatema. Se io fossi vecchia lancerei continuamente anatemi. L'aggressività ha origine dalla frustrazione, e i motivi per sentirsi frustrati si accumulano con gli anni, le idiosincrasie si irrigidiscono, come le articolazioni. Già adesso, che non sono neppure nel mezzo del cammino, non sopporto quelli che hanno una decina d'anni meno di me, quelli che hanno ancora tutte le strade aperte, anche se poi non è detto che sia così. Dovrei guardarli dall'alto, e aspettare che la vita sorprenda anche loro con inciampi sulla strada, prima o poi accadrà, ma non ho poi tutto questo tempo e questa voglia di stare a guardare le vite degli altri andare in frantumi. E comunque, alla fine, so che non ne ricaverei che una soddisfazione meschina e istantanea, fatta di sabbia, pronta a dissolversi alla prima onda, lasciandomi da sola a osservare l'orizzonte con il solito punto interrogativo conficcato nel petto.           E adesso? Cosa succede dopo che la vita ha presentato il conto anche agli altri, dopo che il karma ha fatto il suo giro, o la tua vendetta si è consumata senza che ti sporcassi le mani. Inutile nascondersi, quelle mani sono macchiate lo stesso, non dall'atto ma dall'intenzione. E a te cosa rimane? Cosa hai aggiunto davvero alla tua vita? Puoi scegliere di diventare un vecchio che borbotta e lancia sguardi avvelenati stringendo al petto la pensione, oppure puoi scegliere di diventare un vecchio saggio che ha fatto pace con la vita e che le frustrazioni le ha bruciate al fuoco caldo della consapevolezza. O in alternativa puoi diventare un umarèll e andare a visitare cantieri, è una prospettiva rispettabile, non la escluderei.                                                                                                                                                    – Ci sei ancora?                                                                                                                                            – Sì sì, dimmi.                                                                                                                                               – Aspetto una risposta.                                                                                                                             Mi ha fatto una domanda, e aspetta una mia risposta. Di solito tra i due eventi trascorre un lasso di tempo che mi permette di andare a lavarmi i capelli, preparare la cena, guardare un film con sottotitoli polacchi. Stavolta mi ha preso alla sprovvista.                                                                                            – Puoi ripetere? Non ho sentito.                                                                                                                  – Come passerai il Natale?                                                                                                                    Ecco che parte la Quinta Sinfonia di Beethoven, allegro con brio. Le domande di mia madre sembrano semplici, all'apparenza, ma anche le più innocue nascondono spine, e devi stare attenta a come prenderle in mano senza pungerti.                                                                                                               – Starò a casa, cosa vuoi che faccia. Sai, il decreto.                                                                       Silenzio. Cigolio di mani che scivolano sugli specchi.                                                                              – Mamma? Ci sei?                                                                                                                                       – Eh, sì, ci sono. Eh, hai visto quest'anno, come faremo? Che annata orribile.                                         – Ci rifaremo l'anno prossimo, dai, non preoccuparti – le dico, con l'intento sincero di sollevarle un po' l'umore. Pur dando per scontato che l'anno prossimo a Natale dovrò trovarmi un qualche paese extra-europeo in cui emigrare, di quelli ad alto rischio dove anche la Farnesina sconsiglia di andare, dove le comunicazioni non sono garantite.                                                                                                              – E non ti sentirai sola?                                                                                                                              – Come?                                                                                                                                                        – Non ti sentirai sola, a stare a casa da sola, a passare la Vigilia di Natale da sola e il Natale da sola e Santo Stefano e San Silvestro...                                                                                                                   – E prega per noi! No, mamma, mi piace stare da sola.                                                                       Altro stacchetto della Quinta di Beethoven. Un'ammissione del genere, per mia madre, è oltraggiosa quanto dire di mettere la pancetta al posto del guanciale nella carbonara, o peggio, dire di fare la carbonara vegetariana, senza tracce di maiale. Povero maialino. Povero animale sacrificale. Povera me. In cosa mi sono andata a cacciare. Questo è il momento di appoggiare il telefono a faccia in giù e andare a farmi qualcosa da mangiare, perché tanto so già cosa dirà. Mi parlerà del passato, di lei che alla mia età era già sposata e con due figli, – condoglianze – di lei che senza figli non si sarebbe sentita donna, – fornire un secchio insieme ad affermazioni simili, grazie – di lei che la prima volta che mi ha tenuto in braccio ha sentito di avere la responsabilità di proteggere la cosa più preziosa che c'era al mondo – beh, questa è carina, potrei piangere, ma non lo farò – .                                                            Poi mi parlerà del presente, di mia cugina che ha solo un anno più di me e quest'anno ha avuto una bambina, – nel duemilaventi, che coraggio – della figlia della sua amica di zumba che si è sposata con un ragazzo meraviglioso che fa il medico, – nel duemilaventi, che coraggio – di quanto mi vedrebbe bene con un ragazzo meraviglioso che fa il medico – avercene – .                                                            Infine mi parlerà del futuro. Mi dirà che si preoccupa a pensare che sarò da sola, perché più andrò avanti più avrò bisogno di qualcuno – un medico, probabilmente – e la vita è cento volte più faticosa se non la condividi con qualcuno.


Il duemilaventi è stato un anno che ha richiesto coraggio. Il coraggio di stare da soli, per molti, ma anche il coraggio di riconoscere che abbiamo bisogno degli altri, perché non credo che siamo incompleti senza gli altri, ma, probabilmente, meno ricchi. Ci vuole coraggio anche ad ammettere che non tutte le relazioni ci arricchiscono, anzi molte ci impoveriscono, abbassano le nostre difese immunitarie, fanno sbiadire i nostri veri colori; richiede molto coraggio distinguere le une dalle altre, e riuscire a lasciare andare quelle che non ci fanno bene, nelle quali spesso siamo invischiati a causa dell'abitudine e della nostalgia che, come melassa, ci tengono appiccicati al passato. Perché condividere la vita con qualcuno non significa condividerla con chiunque, e questo malinteso, nella sua banalità, può risultare fatale. Il risvolto lieto e sorprendente delle situazioni drammatiche che richiedono dosi smisurate di coraggio è che scopriamo di avere dentro di noi quella forza emotiva che ci occorre, o se non ce l'abbiamo la costruiamo pian piano, in diretta. E se da un lato vorremmo crollare, e a volte lo facciamo pure, perché negarci questo diritto, dall'altro lato resistiamo, e nel resistere ci sentiamo di nuovo vivi e capaci di rivoluzioni.                                                                                                              – Silvia, ma ci sei? Mi stai ascoltando? – la voce di mia madre gracchia dal telefono abbandonato a faccia in giù.                                                                                                                                                – Sì, ci sono.                                                                                                                                                – Hai sentito quello che ti ho detto?                                                                                                              – Sì.                                                                                                                                                              – E cosa stavo dicendo?                                                                                                                                Quinta sinfonia di Beethoven colonna sonora di questa telefonata al cardiopalma.                                    – Parlavi della figlia di quella tua amica di zumba.                                                                                      – La figlia di Laura...Ah ma allora mi stavi ascoltando!                                                              Riappoggio il cellulare a faccia in giù, abbiamo ancora un po' di tempo.




venerdì 18 dicembre 2020

Attenzione! Fragile! Maneggiare con cura!



Per me non è Natale finché non vado da Mia. Mia è nato come vivaio: piante dai nomi esotici, più sobrie piante d'appartamento con nomi da moschettieri come il ficus e il pothos, simpatiche piante grasse, le mie preferite, forse l'unica specie vegetale che non sono ancora riuscita ad ammazzare. Senza dimenticare naturalmente i fiori: fiori che ricordano quelli assassini di Jumanji, mazzi di rose, camelie, narcisi, ciclamini, iris, rododendri...Non sono affascinanti i nomi dei fiori? Passeggerei tra quelle corsie verdeggianti per ore, inebriata dal profumo silvestre e dalle particolarità di ogni foglia o petalo: le sfumature di colori, le forme, le venature. Ogni cosa è viva e respira e forse mentre respira mi stordisce di anidride carbonica, chi lo sa, chi se la ricorda la fotosintesi clorofilliana. Ad ogni modo è rilassante passeggiare lì in mezzo, c'è lentezza, pace, ritmo di sogno, se non fosse per qualche bambino delinquente che a volte scappa al controllo genitoriale e saltella qui e lì turbando il mio dialogo con le piante e il mio equilibrio interiore. Ma da Mia non ci sono solo le erbette, i fiori e li arbuscelli; vendono anche accessori per la casa, i cosiddetti complementi d'arredo, che come espressione già mi fanno pensare a una me risolta e soddisfatta dalla vita, che arreda casa con gusto sobrio ma non banale, stile sofisticato ma non pretenzioso, una di quelle donne che non escono mai con mutande e reggiseno spaiati e sanno sempre cosa ordinare al ristorante. I complementi d'arredo che più attirano la mia attenzione, poi, sono in realtà candele dai profumi di torta appena sfornata, cuscini sprimacciosi, copertine pelose con le stelle che si illuminano al buio, e una serie di altri ammennicoli forse non esattamente da donna sofisticata che ha tutto sotto controllo, quanto da eterna bambina/adolescente che ancora si esalta a pensare di costruire un fortino con le lenzuola. Ma il periodo natalizio è clemente, e una delle sue concessioni è proprio quella di farci regredire a stadi di sviluppo passati senza sensi di colpa, godendone solo i benefici, ignorandone i pericoli. Ed è proprio a Natale che Mia si trasforma e dà il meglio di sé, diventando l'ambientazione di un trip da acidi natalizio, o la succursale di un villaggio di Babbo Natale, se preferite. Tutto il negozio, dalla porta scorrevole d'ingresso, agli angoli più reconditi di ogni mensolina, fino alla grande sala centrale, e poi fino all'uscita, è disseminato di decorazioni per l'albero e per la tavola, festoni, lucine, ghirlande. E allora entro da Mia trionfante, sapendo che come una calamita attirerò a me tutto ciò che è cozy. Candela al caramello-bruciato-perché-ti-eri-distratta-a-guardare-i-pop-corn-che-scoppiettavano-allegri? Mia! Coperta rosso Natale con maniche, cappuccio e tasca per il telecomando? Mia! Borsa d'acqua calda con pon-pon bianco innevato? Beh, che dire... Mia! Il mio carrello canterà a squarciagola Luci a San Siro e non rinuncerò neppure alle tazze con le corna di renna, perché il confine tra il cozy e il trash talvolta è sottile e a Natale mi piace rischiare di valicarlo ad ogni passata di carta di credito. Qualcuno potrebbe obiettare che questa è una visione consumistica del Natale, che i valori della festa sono altri, e avrebbe sicuramente il mio ascolto e il mio zzz rispetto. Ma per quanto mi riguarda è una festa pagana in cui voglio solo stare a casa con le persone a cui voglio bene, guardare i film che amo, mangiare i miei piatti preferiti, leggere, scartare regali e sfidare parenti e amici ai giochi da tavolo. Se penso ai pezzi che quest'anno mancheranno al mio puzzle di Natale, un po' mi viene il magone. Alcune sono solo tradizioni messe in attesa, e si accettano senza particolari traumi, altre invece sono cose che ho visto finire, persone che ho dovuto salutare. Vorrei credere che mettere insieme tutti i nostri pezzi mancanti potesse servire ad attutire un po' il silenzio, a riempire un po' il vuoto. Vorrei tanto che le parole riuscissero a tendere una mano e a trovarne, con sorpresa, un'altra da stringere. So che forse è un pensiero ingenuo, ma è una concessione che mi farò, dopotutto il periodo natalizio è clemente. Domani andrò da Mia, farò tutto con calma, attenta a non urtare niente mentre mi muovo: ci sono palline di vetro preziose e fragili che potrei frantumare con un gesto distratto o impacciato, un'imperdonabile noncuranza. Mi aggirerò, accorta, tra gli scaffali luminosi e mi rifletterò negli specchi. Farò un selfie che poi non avrò il coraggio di mandare. Incontrerò qualcuno che mi ricorda lui. Poi comprerò le tazze con le corna di renna e i marshmallow a forma di stella e andrò a casa a farmi la cioccolata calda fondente, con una quantità di panna tale da far impallidire qualunque nutrizionista, anche il più benevolo. Cercherò di dimenticare tutto e mi ricorderò di tutto.




domenica 30 agosto 2020

Sogno di una notte di fine estate



La gente non la smetteva di sbuffare, guardare il cellulare e sventagliarsi con il programma della messa. Faceva così caldo che le pareti si sarebbero potute liquefare da un momento all'altro, e tutta la cerimonia si sarebbe trasformata in un quadro di Dalì lasciato a marcire per i posteri. Non si sarebbe mai visto un album di nozze così.
Marco mi prese sotto braccio e mi allontanò dalla folla di parenti.
- Puoi dirmi dov'è finita tua sorella? - mi chiese con una voce più impaziente di quanto avrei voluto.
- E io cosa ne so? Nemmeno volevo farle da testimone.
- Ma sei sua sorella!
- Quello è un caso, cose che capitano.
Mi guardò stancamente, forse il caldo e l'attesa avevano prosciugato tutta la sua pazienza, o forse ci erano riusciti i vent'anni di amicizia con noi. Tanti avevano ceduto molto prima.
- Marco, non so proprio cosa dirti, non ho idea di dove sia.
- Pensi che...Insomma, pensi che abbia cambiato idea? Se sai qualcosa, dimmelo.

Sapevo che lei avrebbe potuto fare qualcosa del genere. Sapevo che si sarebbe persino divertita a fare una cosa del genere. Poco importava andare fino in fondo o meno, arrivare con due ore di ritardo o non arrivare affatto. Dopo qualche anno ne avrebbe parlato come di un'impresa audace che aveva sollevato tutti dalla condanna dell'ennesimo matrimonio noioso. Avremmo dovuto esserle grati, addirittura, per aver fatto della sua vita una continua sorpresa, un'opera d'arte d'improvvisazione creativa, anziché rispettare un copione scontato e sgualcito.
Provavo un po' di pena per Marco, ma non troppa, perché comunque lui se l'era cercata una così, l'aveva scelta nonostante tutte le alternative, anche quelle più accessibili.
"Tu non sei mai stata accessibile, davvero pensi questo di te? Tu coltivi rovi di spine attorno a te e poi ti rattristi perché gli altri per raggiungerti si feriscono e rinunciano". L'ultima volta che me l'aveva detto indossava un vestito da sposa, ne stava provando una trentina, e io ero lì ad aiutarla e a osservarla nello specchio. Mi immaginai i roseti e i rovi e il povero Cristo di turno che cercava di farsi strada per arrivare a me, che stavo tipo adagiata su un albero come la madre di Segantini, dipinto che adoro, ma invece di stringere al petto il bambino paffuto io non stringevo niente, il vuoto, e aspettavo. E poi immaginai il suo vestito candido sporco di sangue, il sangue di chi si era ferito per raggiungere me, e ora stava sposando lei.
Nostra madre diceva che due sorelle non dovrebbero mai scambiarsi vestiti e fidanzati, perché in entrambi i casi finisce in lacrime. Quando lo diceva, io rispondevo con tono sfacciato: "Non preoccuparti, non c'è pericolo, noi non abbiamo la stessa taglia". Il tempo si è rivelato poi ancora più sfacciato nello smentirmi. Uno a zero per lui.

- Insomma, cosa facciamo?
Lo sposo sull'orlo di una crisi di nervi cercava in me la soluzione, e io mi trovavo ancora una volta a risolvere i casini di mia sorella, mentre lei probabilmente era da qualche parte con un cocktail in mano a sorseggiare dalla cannuccia una vita che io non potevo avere. Mi mancava il carattere e forse il talento, mentre una dose in eccesso di senso di colpa mi avrebbe inchiodato alle conseguenze di qualunque mia azione audace.
Avere quegli occhi incollati addosso aumentava il mio senso di soffocamento, come se l'afa non fosse sufficiente. Marco mi guardava, il prete mi guardava, i trecento invitati mi guardavano; erano più di seicento occhi puntati addosso, non si scherza con più di seicento occhi puntati addosso.
La tentazione di fingere un malore e scappare da quella situazione assurda e da quegli sguardi affamati era eccitante come progettare una fuga da scuola, come non presentarsi a un esame, come prendersi un giorno libero dalle responsabilità. Solo che, dopo, quelle ti aspettano, non lo perdono il tuo numero, come fanno i tizi che incontri una sera e poi non ti richiamano, non si dimenticano di te. Ti svegli il giorno dopo o cinque anni dopo e quelle cose che hai evitato e dalle quali sei fuggita con tanta esaltazione e tanto sollievo sono ancora lì, ad aspettarti, solo più minacciose, più oscure, un po' marce e andate a male. Mia madre diceva che guardare la realtà negli occhi paga sempre, anche se all'inizio è più doloroso che voltarsi dall'altra parte e scappare. E così guardai la realtà negli occhi, tutti e seicento, e poco più.
- Scusate, vi chiedo un attimo di attenzione. So che siete stanchi, fa molto caldo oggi, e tanti di voi sono venuti da lontano...
Zia Mary e zio Tony si sistemarono sulla panca e poi si guardarono attorno come a segnalare a tutti gli altri invitati il valore della loro presenza. Feci un cenno cortese e un mezzo sorriso nella loro direzione e continuai.
- Purtroppo devo dirvi che oggi non ci sarà nessun matrimonio, mia sorella non verrà.
Un boato riempì le navate della chiesa come non erano riuscite a fare le dozzine di calle e orchidee che mia sorella si era ostinata a disseminare ovunque, dal vestibolo all'altare.
- Mi dispiace, capisco che sia davvero spiacevole per tutti voi, ma dopotutto da mia sorella una cosa del genere ce la potevamo aspettare. Ad essere sincera, non credo nemmeno l'abbia mai amato Marco. Del resto, se l'avesse amato ora non ci troveremmo in questa situazione, giusto?
Marco mi guardava impietrito come la statua del Cristo alle sue spalle, le mie parole erano state i chiodi che l'avevano crocifisso. Muoveva le labbra ma non riuscivo a sentire cosa mi stesse dicendo. Aveva gli occhi lucidi, scuoteva la testa e parlava una lingua che non capivo.
- Cosa? Non capisco, parla più forte!
Mi avvicinai a lui per sentire meglio, e lui di nuovo mi prese il braccio, come aveva fatto poco prima, e mi trascinò nella stanza delle confessioni, mentre le voci di tutti gli invitati si arrampicavano le une sulle altre e le mogli sgomitavano e i mariti si chiedevano se almeno ci sarebbe stato il buffet.
Marco chiuse la porta della stanzetta dove un'ora prima il prete si era vestito, convinto di passare un'altra noiosa domenica delle sue, tra benedizioni, ostie e strette di mano. Ora il pover'uomo stava ritto sull'altare con la faccia più pallida della sua tonaca, a osservare una folta ressa inferocita che avrebbe spinto chiunque alla vita monastica e solitaria.
Ma il frastuono mi arrivava attutito, lì nella piccola e spoglia stanzetta, dove Marco mi guardava con gli occhi spalancati e increduli, e mi stava prendendo le mani.
- Ma cosa hai detto? Perché non ne hai parlato con me, prima?
- Mi dispiace, non volevo certo farti del male, ma bisogna guardare negli occhi la realtà. Lei non ti ama. Lei non va bene per te. Io ti amo. Io vado bene per te.
Forse ero impazzita, ma sentivo il coraggio scorrermi dentro ed era come sentirsi vivi, per la prima volta dopo tanto tempo. Se anche fosse andata male, se anche fosse stato il disastro che si preannunciava, e lui non mi avesse più voluto vedere o parlare, ne sarebbe comunque valsa la pena, qualsiasi cosa pur di sentire quella sensazione così forte e pulsante di vivere, per una volta, e non soltanto di assistere alla vita.
Lui mi guardò per ore senza dire nulla, poi mi accarezzò una guancia, mi bisbigliò qualcosa all'orecchio che mi fece sorridere, anche se non ricordo cosa disse.
- Senti, gli invitati ci sono già tutti, i miei e i tuoi, il prete c'è...
- Se non gli è venuto un infarto.
- Se non gli è venuto un infarto. È agosto. Non hai sempre detto che ti saresti voluta sposare ad agosto?
Veramente era settembre, ho sempre detto che mi sarei voluta sposare a settembre, ma non mi sembrava il momento di contraddirlo, così annuii.
- Facciamolo. Sposiamoci!
Era tutto troppo bello per essere vero, ma era giusto che per una volta le cose troppo belle per essere vere lo fossero comunque, è l'eccezione alla regola, è una concessione del destino dopo una vita di sconfitte. Uno a zero per me, stavolta.
- Facciamolo.
- Facciamolo! - disse lui sorridendo, un sorriso raggiante, disteso, ampio, che si allargava sempre più, come in quel video dei Soundgarden, fino a sciogliersi su tutta la faccia, con gli occhi spalancati e fissi e la testa che si inclinava da un lato.

Il cellulare squillò.
- Dove sei finita? Stiamo aspettando tutti te!
- Scusami, ho fatto tardi, la sveglia non è...
- Sbrigati, non posso mica sposarmi senza mia sorella!
Mi alzai e riuscii a battere tutti i record preparandomi in dieci minuti secchi, una rapidità di cui mi sarei pentita guardando le foto. Poco dopo ero in chiesa, con gli occhi di tutti addosso, mia sorella era splendida nel suo vestito candido e Marco la guardava come se la vedesse per la prima volta.
Stavo guardando la realtà negli occhi, e faceva male. Uno a zero per lei.





domenica 9 agosto 2020

L'ultimo bicchiere



Un uomo entra in un bar. Il posto è uno di quelli fermi a trenta o quarant'anni fa. Sedie nere di plastica col fondo bucherellato, la Gazzetta dello Sport sgualcita sul bancone, il tavolino appiccicoso, il ventilatore che va a scatti e il condizionatore ingiallito e fuori uso. Proprio di fronte a dove si è seduto, troneggia il frigo con i gelati chiusi a chiave, le macchinette del videopoker sono invece nel corridoio in ombra (una è fuori servizio, come indica un foglio scritto a mano): il rumore di tanti colpi di proiettile, quando qualcuno vince qualcosa, arriva improvviso a svegliare dal torpore i pochi presenti. Sul muro sono appesi due orologi, uno a lancette, uno digitale, a segnare il passare di un tempo che non passa mai, quando entri lì dentro. La ragazza cinese sta nascosta dietro allo spillatore della birra, ma i suoi occhi spuntano allarmati quando qualcuno si avvicina troppo al frigo dei gelati o alla mensola con le bottiglie di spumante schierate a prendere polvere. Alle pareti, foto di Frank Sinatra nel bar in bianco e nero di qualche film. Un insetto zampetta sul bordo della finestra, la sua ombra si proietta sul tavolino e lo fa sembrare molto più grande. Momenti di gloria per chi non ci è abituato. 

- Si diventa troppo vecchi, l'ho sempre detto io - borbotta un vecchietto rivolgendosi al suo amico.
- È che gli anni passano troppo in fretta, sembra ieri che eravamo giovani noi - risponde l'altro, pronto a sferrare briscole e luoghi comuni.
Avranno vent'anni più di lui, e sembrano essersi calati nella parte molto bene, sono uguali ai vecchietti dei bar che incontrava da ragazzo, sempre gli stessi, una presenza obbligatoria, quasi te li consegnassero insieme al bancone e alla macchina del caffè, quando decidevi di aprire un bar in provincia. Il suo sguardo, invece, è un po' cambiato, non li guarda più con gli occhi curiosi del bambino, con l'entusiasmo strafottente del ragazzo, o con il rispetto benevolo del giovane uomo.
Ora li guarda con compassione: soffre con loro e si chiede quando toccherà a lui, perché la distanza tra lui e loro si è accorciata più di quanto avrebbe mai creduto possibile.
Il tempo è volato, le correnti l'hanno portato da una parte e dall'altra, gli spifferi si fanno sentire dalle porte che pensava di essersi chiuso alle spalle.

Il palazzo era di pietra arenaria color lapide, e si ergeva di fronte a un cortile di sassi e terra battuta, nemmeno un fiore di campo osava crescere. Lo chiamavano semplicemente il collegio, ma lui sapeva il vero nome, l'aveva inciso nel cuore come nel marmo di quell'insegna davanti alla scalinata: Convitto delle suore per l'infanzia abbandonata. L'infanzia abbandonata. Quelle parole lo inchiodavano come una condanna a vita, un destino segnato fin dall'inizio, da cui avrebbe cercato di fuggire tante volte, senza mai seminarlo. 
Il lavoro, la famiglia, gli amici, il poco tempo libero: pezzi di puzzle da mettere insieme con azzardata fiducia, mentre convivi col sospetto che nella scatola non ci siano tutti i tasselli e che a te mancherà sempre qualcosa.
Chi riempie la cassetta degli attrezzi e dei privilegi con cui nasciamo? Perché alcuni nascono con le spalle sempre coperte e altri costretti invece a guardarsi sempre le spalle? 
Lui camminava fischiettando, e sembrava non farsele queste domande. Arriverà il giorno in cui se le farà, e gli cadranno addosso come i massi, lungo le strade, che le reti non sono più riuscite a contenere. A volte si lascia sfuggire qualche frase fatta: "Si tira a campare", "Si tira avanti", e poi sorride, ma non è una risata, è più uno sbuffo, l'amara rassegnazione a pensieri che un tempo odiava e non avrebbe mai voluto fare. È la "mentalità della scarsità", la stessa che ha plasmato anche i suoi figli, fin dall'inizio. Il destino dei padri abbraccia e soffoca i figli, una condanna in eredità, una tragedia greca che si consuma mentre si mangia davanti alla televisione. 
Lì ha origine quella sensazione di non potersi permettere certe cose, di non poter ambire a certi sogni. Come se quella scarsità di risorse, prima anche materiale, fosse rimasta solo psicologica, ma comunque sufficiente per impedire di raggiungere ciò che si desidera, o di fare anche solo un passo in quella direzione. Come rendi reale qualcosa che non ti concedi nemmeno di immaginare?
E chi cerca di cambiare il proprio destino compete con una forza più grande di lui, con la forza di un dio iniquo dal sorriso beffardo come un ghigno. Sfida gli sguardi e le risate di chi commenta osservando dal divano, di chi gli vende facili ricette per la felicità, magari condite di senso di colpa. Chissà perché a volte pensiamo che le regole che hanno funzionato per noi debbano necessariamente funzionare per gli altri, come se la vita degli altri, una massa informe, non aspettasse altro che il nostro stampino, e il nostro timbro di approvazione. 

- Un'altra. Per favore.
La ragazza cinese arriva e lascia scivolare sul tavolo un altro bicchiere, colmo di birra. Lancia un'occhiata malevola ai vecchietti senza mascherina, poi si dilegua dietro al bancone.
La birra non è buona come quella che lui beveva in Germania, l'unico ricordo bello di quel periodo orrendo, ma dopo il quinto o sesto bicchiere il sapore non è poi così importante.
I suoi figli credono di aver ereditato un destino triste, ma la condanna non è la stessa, perché la sua infanzia strappata, corrosa, abbandonata, non la immaginano, neanche nei loro incubi. Al massimo l'hanno vista in qualche film, l'hanno letta nei racconti di Dickens. Lui non ne parla. 
Affoga lo sguardo nel bicchiere vuoto. Gli occhi vacillano. Ecco i colpi di proiettile, uno appresso all'altro, rapidi e sonanti: una cascata di monete e le urla sconnesse di qualcuno che quella sera andrà a casa felice. 




domenica 5 luglio 2020

Questo Racconto della Domenica non si farà!



Camminavo sola e indisturbata per la stradina di campagna vicino a casa mia. Indisturbata se non consideriamo le zanzare assassine della Bassa, la puzza della terra concimata, tutta natura, l'umidità che qui ti circonda come un'aura (non è Illuminazione, ma sudore).
Quando due uomini dall'aspetto tozzo e contadinesco, l'aria di spaventapasseri con qualche taglia di troppo, mi si sono avvicinati baluginanti come miraggi.
"Ma che vorranno mai questi tipacci? Io vado per la mia strada, quelli per la loro", mi son detta tra me e me.
- Lei è la signora Silvia, vero? - mi ha apostrofato uno dei due, con sguardo truce.
Io mi sono guardata alle spalle, chiedendomi a quale signora potesse mai rivolgersi il nerboruto, ma, neanche a dirvelo, la stradina alle mie spalle era deserta, fatta eccezione per un piccione dall'aspetto assai ignaro che, al mio sguardo carico di speranza, s'è volatilizzato verso cieli migliori.
- Sono Silvia, lei chi è?
Noi - ha detto buttando l'occhio al panciuto compare - siamo stati informati del fatto che lei vuole scrivere un racconto della domenica.

Certe notizie corrono veloci. In effetti avevo in mente, una volta tornata a casa dopo la mia passeggiata quotid domenicale, che mi è utile per schiarire i pensieri e diluire gli istinti omicidi, ecco, avevo proprio in mente di mettermi al lavoro sul racconto della domenica. Lo so, a "mettermi al lavoro" ho sorriso anch'io. È uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo. In realtà a volte non so neanche perché lo faccio, e forse questo è un problema, e traspare, come l'inchiostro invisibile che però in controluce si vede. Ecco, ora dovrei controllare se questa cosa dell'inchiostro invisibile è vera perché mi è venuta così, dal nulla, e sembra carina, sembra azzeccata, però magari non è vera, non ha senso, e allora che figura ci faccio. O forse non è davvero un problema, non sapere o non saper spiegare perché lo faccio. Magari dentro ognuno di noi c'è un istinto che ci spinge a fare le cose anche se non sappiamo spiegarci perché; alcuni lo chiamano dharma, il nostro compito o dovere personale, ciò che siamo venuti a fare nel mondo. "See, vola basso e schiva i sassi", direbbe la mia amica Gaia. Non è vero, lo dico io, però è più carino se lo faccio dire alla mia amica Gaia. Anche perché voi non la conoscete ma lei potrebbe davvero dire una cosa del genere. E comunque lo può dire in tutti i casi perché qui sono io che decido. Ecco, forse per questo lo faccio: perché quando scrivo ho il controllo, placo l'ansia, soddisfo il mio ego possessivo e tiranno. O forse, ve la butto lì, magari lo faccio perché mi diverto e basta. E ora 'sti due bruti cosa vogliono, da me e dal mio racconto della domenica?

- Cosa volete da me e dal mio racconto della domenica?
- Questo racconto non s'ha da fare - ha sentenziato uno dei due con una voce cavernosa e un po' grottesca.
- E perché mai?
- E se poi viene uno schifo, come fa? Guardi che adesso alcuni la leggono. Certo, sono pochi, però la leggono... - ha detto con tono insinuante l'altro barbaro, dondolando la testa come quei cagnolini che alcuni mettevano sul cruscotto dell'auto.
- Mi leggono?
- Ma chi vuoi che la legga - gli ha fatto eco l'amico con una manata sulla spalla - Il punto non è quello, ché tanto non la considera nessuno, senza offesa, eh, signora. Il punto è che non ha visto che ore sono?
- Ho lasciato a casa il cellula...
- Sono le sette e mezza di sera. E lei deve ancora tornare a casa, farsi la doccia, mettersi la crema al cocco, far da mangiare, mangiare...
- Ma guardi, io mangio poco...
- Sparecchiare, pulire la cucina, preparare l'occorrente per domani, discutere con suo padre e suo fratello, che l'aspettano per il secondo round. A pranzo non è andata granché bene, si ricorda?

E chi se lo scorda. Mi illudo sempre di poter parlare con loro come se fossimo tutti adulti, invece siamo tutti bambini sfrattati ed esiliati in questi corpi da grandi. Fingiamo, recitiamo una parte, a volte ci viene bene, altre male, mio fratello e mio padre sono più bravi su certi registri, io su altri, ma è sempre un copione che ci tiene prigionieri. E ci sono un sacco di questioni irrisolte ed emozioni represse che fanno muro e impediscono un confronto razionale. Meccanismi malati che conosco bene. Ho sempre fatto la parte dell'olio che fa scivolare meglio gli ingranaggi, ora invece sto opponendo resistenza, sono ruggine, e ho paura che salti tutto.

- Sì, mi ricordo - dico con aria colpevole e sguardo basso.
- Sa, sono cose a cui deve pensare, non può illudersi di avere tempo per altro.
- E poi, comunque, c'è tutto il resto - ha aggiunto il secondo bruto, con gli occhi che luccicavano.
- Noi abbiamo portato il nostro messaggio, ci pensi bene, mi raccomando. E quando ci avrà pensato capirà anche lei che non è cosa. Noi l'abbiamo avvertita.

I due uomini sono spariti come fantasmi nella pianura.




venerdì 26 giugno 2020

Quanti "no" servono per dire davvero "no"?



In questi giorni ho letto su Twitter una serie infinita di confessioni dolorose e strazianti, confessioni di violenze subite da donne, ragazze, bambine, da parte di uomini, ragazzi, bambini. Come se questo virus della violenza maschile si prendesse molto presto e si rafforzasse nel tempo, accompagnando ogni fase della vita. I bambini che alle elementari ci alzavano le gonne per toccarci e ridacchiare saranno gli adolescenti che giocano a "la bombi o la passi", diventeranno i ragazzi che ci portano a fare un giro in macchina in una campagna isolata e sembrano non sentire i nostri "no", gli uomini che ci offrono la cena e poi si aspettano "una ricompensa" e cambiano improvvisamente atteggiamento quando capiscono che non l'avranno.

Quando è iniziato tutto questo? Per quanto tempo è andato avanti ed è stato considerato "normale"? Perché ora che sappiamo che non lo è, queste cose continuano ad accadere, e non riusciamo ad impedirlo? Perché molti uomini si sentono minacciati dal femminismo e dalla possibilità di perdere la loro posizione di "superiorità", quando questa superiorità equivale a un sopruso? Perché molte donne fanno fatica a dire "no" e sono schiave del dovere di compiacere?

Lo so, sono tante domande. E rispondere a ognuna di queste richiederebbe molta più conoscenza e molto più spazio di quelli di cui io dispongo adesso. Ma soprattutto, mentre leggevo queste testimonianze, questa volontà di esporsi, anche con dettagli che avrebbero potuto sollevare interesse morboso in chi leggeva, e che sicuramente riaprivano ferite in chi scriveva, mi chiedevo: "Raccontare tutte le nostre storie ed esperienze, è davvero utile?"

Credo di sì, innanzitutto perché ci fa sentire meno sole. Ci fa capire che quello che è successo a noi non è un caso isolato e sfortunato, ma il risultato di una mentalità e una cultura misogina e maschilista che pervade la nostra società, di cui dobbiamo prendere coscienza e che dobbiamo estirpare. Ogni nostra storia è una foglia di un albero centenario, le cui radici affondano nel terreno in profondità. Il vento della calunnia e della smentita può spezzare le nostre foglie. "Sei esagerata", "Te la sei cercata", "Sei stata ingenua", "Sei stata troppo provocante", "All'inizio lo volevi, sei stata ambigua", "Perché sei venuta qui, se non volevi farlo?".

Da sole, è più facile cadere nel tranello di chi sminuisce la nostra esperienza e i nostri sentimenti, magari per allontanare da sé accuse che, razionalmente, non sarebbe in grado di accettare, perché lui  non si riconosce nella figura dell' aggressore, dell'uomo che fa violenza.
Noi stesse siamo portate a sminuire certi fatti, perché non possiamo credere che siano successi a noi, non vogliamo accettare di aver lasciato che accadessero, non vogliamo sentirci vittime.
E allora ci ripetiamo le stesse bugie che ci dicono loro: "Forse sto esagerando", "Sono stata ingenua", "L'ho provocato", "Gli ho dato messaggi ambigui". Possiamo dare credito quanto vogliamo a queste voci che iniziano a rimbombarci in testa, ma intanto la nostra voce interiore sa perfettamente che quello che è successo è sbagliato e che non è colpa nostra. Così come a cinque anni sapevo che le parole che mi avevano detto quei ragazzini undicenni che giocavano al parco erano sbagliate, anche se non sapevo cosa significassero. Così come a quattordici anni sapevo che il tizio, estraneo, che mi ha bisbigliato alle spalle: "Ti starebbe benissimo addosso", mentre io guardavo un completo intimo in vetrina, stava sbagliando, mi stava facendo sentire a disagio, e non era colpa mia. La nostra voce interiore sa come stanno le cose. Se solo riuscissimo ad ascoltarla, invece di soffocarla con le interferenze del mondo.

Guardiamo più da vicino. Smontiamo più accuratamente queste false credenze che ci allontanano dalla realtà e quindi dalla guarigione. Per prima cosa, non tutto quello che noi donne facciamo è un atto di provocazione indirizzato ai maschi, e se viene inteso così, ci stanno ingiustamente sessualizzando. Non c'è provocazione nel camminare per strada, nel prendere un autobus o un treno, nello studiare in biblioteca, nel lavorare, magari in un ambiente prevalentemente maschile, e in tantissime altre attività quotidiane che vorremmo svolgere in tranquillità, indisturbate, senza la paura, l'ansia, la rassegnazione verso ciò che potrebbe succedere, verso ciò che alcuni uomini potrebbero dire o fare. In secondo luogo, quando, in altri contesti, effettivamente "provochiamo" non c'è niente di male nel farlo, come non c'è niente di male in qualsiasi azione che facciamo di nostra volontà, tra persone consenzienti, con le quali abbiamo un rapporto di confidenza e intimità. Questo non significa che stiamo acconsentendo a qualunque iniziativa prenderà chi ci sta di fronte. Nel momento in cui uno fa qualcosa o insiste per fare qualcosa che voi non volete fare, adducendo la scusa del "mi hai provocato", "prima volevi", "lo vuoi anche tu", "ti piacerà", "se sei venuta qui vuol dire che vuoi", sta usando la prevaricazione, sta assumendo cose e pretendendo cose che voi forse non avete mai voluto e sicuramente non volete in quel momento, se dite di no. Ma, esattamente, quanti "no" servono per dire davvero "no"? Perché mi viene spontaneo pensare a una situazione in cui io continuavo a dire "no", ne avrò detti almeno sei o sette, mentre la sua mano non si fermava, finché non sono stata zitta.

Ricordo un'altra volta, eravamo a letto, in pigiama, ci stavamo baciando. Poi abbiamo smesso e ci siamo addormentati. Durante la notte, nel dormiveglia, quando ancora non sai se stai sognando o sei sveglia, ho aperto gli occhi e ho visto che lui era nudo e si stava masturbando, e mi toccava.
Mi sono girata dall'altra parte, lui continuava a toccarmi e io, semi-cosciente, continuavo a spostare la sua mano. Non sarebbe dovuto bastare quello, perché si fermasse? Quale tipo di uomo può provare piacere a fare qualcosa quando l'altra persona non vuole o, addirittura, non è completamente cosciente? Quello che è successo dopo non mi sento di raccontarlo, ma è finito con me che scappavo e mi andavo a chiudere a chiave in bagno. Nel tragitto per tornare a casa, due ore di macchina, non ho detto una parola, e lui mi ha lasciato in stazione incazzato perché per tutto il tempo non avevo parlato, quando lui aveva fatto tutta quella strada per me. Un paio di giorni dopo, ho voluto parlare di ciò che era successo, e tutto ciò che ha detto è stato: "Senti, io non ho tempo per le tue paranoie. Se pensi che ti abbia violentata, denunciami".

Di nuovo ritorna questa pericolosa credenza: "Lo stupratore nel vicolo fa violenza, io non sono certo uno stupratore, sei tu la pazza se pensi questo".
Forse bisognerebbe allora capire cosa si intende con violenza e consenso, le tante forme che la violenza può assumere, le zone grigie che spesso nel dibattito culturale e nei tribunali portano a sminuire o addirittura negare il carattere coercitivo di molte azioni. "Può esserci violenza se prima uno dei due aveva acconsentito e poi ha cambiato idea? Può esserci violenza se uno dei due, poco lucido, aveva bevuto di sua spontanea volontà? Se uno dei due è in posizione di potere, il consenso di chi è in posizione subordinata può essere condizionato?". Nonostante le risposte a queste domande possano sembrare scontate, nella pratica spesso non lo sono. Per questo è importare tornare alle definizioni e dare informazioni corrette, perché laddove l'empatia del singolo non riesce ad arrivare, arrivi l'informazione.

Il Sexual Offences Act del 2003, nel Regno Unito, uno dei paesi che più ha fatto passi avanti sul tema del consenso, dà la seguente definizione: "Agli scopi della presente normativa, una persona consente se aderisce per scelta, e se dispone della libertà e della capacità per compiere tale scelta".
E se vogliamo chiarirci un po' di più le idee al riguardo, possiamo guardare questo video, dove il consenso viene spiegato per mezzo di una semplice tazza di tè.



(Il video c'è anche in italiano). 







Dal 2017, Movimenti come il #MeToo in America e l'hashtag equivalente #Quellavoltache in Italia hanno raccolto migliaia di testimonianze spontanee e acceso così i riflettori su storie che non devono più essere nascoste e negate. Nella nostra cultura c'è un problema, non possiamo più fingere di non vederlo, chiudere gli occhi, spegnere la luce.

Raccontare tutte le nostre storie ed esperienze è utile, ma non basta. Non basta la compassione così carica di amarezza che possiamo ricavarne, le nostre storie devono essere il punto di partenza che ci spinga a provocare un cambiamento. Prendere coscienza di un problema è il primo passo, non l'ultimo. Non credo che uscire da questa situazione sia compito solo di uno o dell'altro, credo sia necessario educare i maschi a non essere carnefici ed educare le femmine a non essere vittime. E non intendo con questo aderire alla viscida mentalità del blame the victim, incolpare la vittima.
La colpa è solo di chi fa del male, ma in un mondo tutt'altro che ideale credo sia necessario fornire alle donne strumenti per combattere proprio quelle forme più subdole e sottili di violenza, tutti quei casi in cui esse si sentono inconsciamente costrette ad assecondare.
Non si tratta di dire alle ragazze come vestirsi (è inutile, oltre che vergognoso), ma di dire alle ragazze che possono dire "no", che possono cambiare idea, che possono avere dei bisogni e soddisfarli senza subordinarli a quelli dei maschi, che non hanno il dovere di essere belle, secondo canoni decisi da altri, che non hanno il dovere di piacere a tutti.
E sono queste le stesse cose che dobbiamo dire ai ragazzi, perché non si sentano traditi, offesi, arrabbiati se una ragazza si rifiuta di fare sesso con loro, o cambia idea, o se vuole mettere fine a una relazione. Perché non si sentano in diritto di dire a una ragazza come deve vestirsi o truccarsi, quanto deve mangiare, cosa deve fare con il suo corpo. Si tratta di insegnare a tutti, maschi e femmine, il rispetto di diritti fondamentali di libertà, dignità e autodeterminazione, perché la nostra identità di genere sfumi a favore della nostra identità di esseri umani. Perché un giorno non serva più dire: "Rispettala, potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia", ma basti dire: "Rispettala, è un essere umano".




domenica 24 maggio 2020

Cicatrici



Non so come è successo. Mi sono svegliato una mattina e sentivo la pelle tirare, proprio qui, sul fianco sinistro. Mi sono guardato allo specchio e l'ho vista: una cicatrice rossa, in rilievo, lunga circa quindici-sedici centimetri, che partiva dal fianco e arrivava sulla schiena.

- Ti avrà graffiato Ernesto - ha detto la mia ragazza al telefono, con il suo solito tono sbrigativo. Peccato si fosse dimenticata che Ernesto, il gattone soriano mio compagno di scorribande, era morto il mese scorso. No, non dispiacetevi per me, lei è fatta così. Sarà perché è dei Gemelli. È una ragazza in gamba, ma fondamentalmente non le frega un cazzo di nessuno, così queste cose, queste sciocchezze, come le chiama lei, le dimentica. Sciocchezze tipo il mio compleanno (quindici maggio), il mio intervento alla mano (tunnel carpale), l'ultima volta che mi ha detto ti amo (c'era la neve).
Ma se ho una certezza nella vita è che le persone non si cambiano, semplicemente si finge che ci vadano bene così come sono e si soffre in silenzio.

Ad ogni modo, Ernesto era morto. E se anche fosse stato vivo, lui una carognata del genere non l'avrebbe mai combinata. A me, poi, che ero il suo unico fornitore di croccantini. A Chiara, la mia ragazza, forse l'avrebbe pure potuto sferrare un colpo basso, dopotutto lei si dimenticava sempre di dargli da mangiare, quando viveva qui, e non era neanche particolarmente propensa a distribuire coccole e grattini. Strano, ho sempre pensato che le donne egoiste e anaffettive e i gatti andassero d'accordo, in un certo senso si appartenessero, come anime affini. Tra l'altro, Chiara possedeva davvero un gatto, anzi, una gatta. Si chiamava, indovinate un po', Minou, come la gattina smorfiosa degli Aristogatti. Sì, perché quando sei una fighetta comune, egoista, anaffettiva e stronza, e ti prendi una gatta, la devi per forza chiamare Minou, da contratto. Però Chiara con Ernesto non aveva mai legato, non so dirvi di più. E per giunta non è poi così importante, perché io volevo parlarvi della cicatrice.
La pelle tirava e non potevo negarlo, però sapete, io sono uno di quelli a cui è stato insegnato a non lamentarsi, ché non sta bene, anzi, non è da uomo. Non sono parole mie, però col tempo lo sono diventate. Ecco una cosa che mi ha sempre fatto paura: ti ritrovi queste parole che ronzano in testa e ti chiedi chi ce le abbia messe e come fare a scacciarle via.
Guardavo la pelle rossa che sembrava pulsare dal dolore e l'unica cosa che riuscivo a dirmi era: "Dai Massimo, non ti lamentare!". Il giorno prima avevo lavorato in giardino per finire di ridipingere e montare le persiane, e forse, senza accorgermene, mi ero ferito; ma come aveva fatto a formarsi addirittura la cicatrice, in così poco tempo? Il mio riflesso mi guardava dubbioso.
Ho messo una maglietta, un pantalone vecchio e sudicio di quelli che Chiara guarda sempre male, quando me lo vede addosso, e ho ricominciato a lavorare al mio progetto. Dopo poche ore sotto il sole, il fianco mi bruciava come se sulla carne viva avessi versato dell'alcool puro. La pelle sfrigolava e il dolore era talmente forte che ha cominciato a girarmi la testa. Così mi sono fermato e ne ho approfittato per mangiare qualcosa e per chiamare Giulia, mia madre. Lo so, molti si straniscono quando la chiamo per nome, ma lei ha sempre voluto così, da quando eravamo piccoli. E dopo una decina di ceffoni ben assestati, il vizio di chiamarla mamma te lo togli.

- Massimo, come va?
- Insomma. Stamattina mi sono svegliato con un'assurda cicatrice sul fianco, lunga quanto una mano, e tira e fa male che quasi vorrei urlare.
- Una cicatrice? E come diavolo te la sei fatto?
- Beh, in realtà...
- Quel tuo maledetto lavoro. Io te lo dicevo che non era cosa, ma tu, testardo come tuo padre. Lo sai com'è che tuo padre si è rotto il piede, vero? Te l'ho raccontato?

Forse cento, centocinquanta volte negli ultimi trentotto anni.

- Sì, credo di sapere la storia.
- Beh, stava trasportando un termosifone, non un termosifone, era un pezzo di ghisa, e naturalmente faceva tutto da solo perché lui è come te, se non fa tutto da solo si sente inutile e...

Ho finito in silenzio il mio panino.

Il pomeriggio ho continuato a lavorare, spostando tutto il materiale da assemblare all'ombra della tettoia, così che quel caldo infernale mi desse un po' di tregua. Purtroppo questa soluzione ha tamponato le cose solo per un po', perché la pelle sul fianco ha ricominciato a brulicare, come abitata da formiche fatte di fuoco o che so io, che la percorrevano avanti e indietro, senza sosta.
Poi le cose sono peggiorate, ed è arrivato l'istinto di grattarmi. Un prurito del genere non lo augurerei neanche al mio peggior nemico; nemmeno all'ex di Chiara, quel suo compagno di università che lei continuava a chiamare amico, o nei casi peggiori collega, e che ogni tanto si faceva, anche se stavamo insieme, perché la monogamia è un costrutto patriarcale.

I morsi sul fianco sembravano aumentare di intensità all'improvviso, poi il dolore si spegneva per un po', per darmi l'illusione di poter andare avanti con la mia giornata. Quell'angoscia intermittente mi ha accompagnato fino a sera.
Ho guardato più volte il cellulare come uno scemo, sperando che Chiara mi scrivesse, ma sapevo che non l'avrebbe fatto, lei si fa viva solo quando ha bisogno, proprio come i gatti.
E se le avessi scritto io, dicendole che stavo male, mi avrebbe trovato noioso. Ma di fingere di stare bene, in quel momento, proprio non mi andava.
Così mi sono rassegnato a passare la serata da solo, con una birra fredda, le parole di un film in tv a farmi compagnia, e quella cicatrice apparsa dal nulla a occuparmi la testa.

Poi è successa un'altra cosa, altrettanto strana: è squillato il telefono. Non il cellulare, il telefono di casa, quell'oggetto di antiquariato che ancora mi ostino a conservare, un po' per nostalgia, un po' perché spero che tra qualche anno mi valga qualcosa a un mercatino o su internet.
Mi sono un po' allarmato, erano forse un paio d'anni che non lo sentivo squillare e davvero poche persone, ormai, avevano quel numero.
- Pronto? - ho chiesto titubante. Il silenzio dall'altro lato non mi rassicurava affatto. Poi una voce flebile di donna ha cominciato a parlare.
- Sei...Sei Massimo?
- Sì. Chi parla?
- Vediamo se ti ricordi di me - ha detto la voce, ora più sicura, lasciandosi andare a una risata che ha subito sciolto la tensione.
- Dammi qualche indizio - ho risposto, e non riuscivo a trattenere un sorriso.
- Vediamo, cosa posso dirti...Rimini, settembre millenovecentonovantotto? È troppo poco come indizio? - E ora potevo veder sorridere anche lei, ovunque fosse, con quegli occhioni languidi e le labbra rosse e la fossetta sul mento.

Abbiamo iniziato a parlare, e sono passate le ore, i giorni, gli anni, alla finestra, mentre noi eravamo fermi. Non so come spiegarvelo, è come trovare il segreto per battere il tempo, e mentre per gli altri quello continua a scorrere come sempre, per te rallenta, si dilata.
Il mattino dopo mi sono svegliato sul divano, con la cornetta del telefono ancora in mano e il suo tubare a vuoto che mi rimbombava nella testa. Ho aperto gli occhi e per un attimo mi sono sentito davvero felice, e niente più tirare avanti, e non lamentarsi, e pensare a chi sta peggio. Ero solamente felice. Improvvisamente mi sono ricordato tutto e mi sono toccato il fianco, ho sollevato la maglietta, ma non riuscivo a vedere o sentire nulla. Sono andato in bagno e ho controllato allo specchio. Sparita. Della cicatrice non c'era più traccia.