Non so come è successo. Mi sono svegliato una mattina e sentivo la pelle tirare, proprio qui, sul fianco sinistro. Mi sono guardato allo specchio e l'ho vista: una cicatrice rossa, in rilievo, lunga circa quindici-sedici centimetri, che partiva dal fianco e arrivava sulla schiena.
- Ti
avrà graffiato Ernesto - ha detto la mia ragazza al telefono, con il
suo solito tono sbrigativo. Peccato si fosse dimenticata che Ernesto,
il gattone soriano mio compagno di scorribande, era morto il mese
scorso. No, non dispiacetevi per me, lei è fatta così. Sarà perché
è dei Gemelli. È una ragazza in gamba, ma fondamentalmente non le
frega un cazzo di nessuno, così queste cose, queste sciocchezze,
come le chiama lei, le dimentica. Sciocchezze tipo il mio
compleanno (quindici maggio), il mio intervento alla mano (tunnel carpale), l'ultima
volta che mi ha detto ti amo (c'era la neve).
Ma se
ho una certezza nella vita è che le persone non si cambiano,
semplicemente si finge che ci vadano bene così come sono e si soffre
in silenzio.
Ad
ogni modo, Ernesto era morto. E se anche fosse stato vivo, lui una
carognata del genere non l'avrebbe mai combinata. A me, poi, che ero
il suo unico fornitore di croccantini. A Chiara, la mia ragazza,
forse l'avrebbe pure potuto sferrare un colpo basso, dopotutto lei si
dimenticava sempre di dargli da mangiare, quando viveva qui, e non
era neanche particolarmente propensa a distribuire coccole e
grattini. Strano, ho sempre pensato che le donne egoiste e
anaffettive e i gatti andassero d'accordo, in un certo senso si
appartenessero, come anime affini. Tra l'altro, Chiara possedeva
davvero un gatto, anzi, una gatta. Si chiamava, indovinate un po',
Minou, come la gattina smorfiosa degli Aristogatti. Sì, perché
quando sei una fighetta comune, egoista, anaffettiva e stronza, e ti
prendi una gatta, la devi per forza chiamare Minou, da contratto.
Però Chiara con Ernesto non aveva mai legato, non so dirvi di più.
E per giunta non è poi così importante, perché io volevo parlarvi
della cicatrice.
La
pelle tirava e non potevo negarlo, però sapete, io sono uno di
quelli a cui è stato insegnato a non lamentarsi, ché non sta bene,
anzi, non è da uomo. Non sono parole mie, però col tempo lo
sono diventate. Ecco una cosa che mi ha sempre fatto paura: ti
ritrovi queste parole che ronzano in testa e ti chiedi chi ce le
abbia messe e come fare a scacciarle via.
Guardavo
la pelle rossa che sembrava pulsare dal dolore e l'unica cosa che
riuscivo a dirmi era: "Dai Massimo, non ti lamentare!". Il
giorno prima avevo lavorato in giardino per finire di ridipingere e
montare le persiane, e forse, senza accorgermene, mi ero ferito; ma
come aveva fatto a formarsi addirittura la cicatrice, in così poco
tempo? Il mio riflesso mi guardava dubbioso.
Ho
messo una maglietta, un pantalone vecchio e sudicio di quelli che
Chiara guarda sempre male, quando me lo vede addosso, e ho
ricominciato a lavorare al mio progetto. Dopo poche ore sotto il
sole, il fianco mi bruciava come se sulla carne viva avessi versato
dell'alcool puro. La pelle sfrigolava e il dolore era talmente forte
che ha cominciato a girarmi la testa. Così mi sono fermato e ne ho
approfittato per mangiare qualcosa e per chiamare Giulia, mia madre.
Lo so, molti si straniscono quando la chiamo per nome, ma lei ha
sempre voluto così, da quando eravamo piccoli. E dopo una decina di
ceffoni ben assestati, il vizio di chiamarla mamma te lo
togli.
-
Massimo, come va?
-
Insomma. Stamattina mi sono svegliato con un'assurda cicatrice sul
fianco, lunga quanto una mano, e tira e fa male che quasi vorrei
urlare.
- Una
cicatrice? E come diavolo te la sei fatto?
-
Beh, in realtà...
-
Quel tuo maledetto lavoro. Io te lo dicevo che non era cosa, ma tu,
testardo come tuo padre. Lo sai com'è che tuo padre si è rotto il
piede, vero? Te l'ho raccontato?
Forse
cento, centocinquanta volte negli ultimi trentotto anni.
- Sì,
credo di sapere la storia.
-
Beh, stava trasportando un termosifone, non un termosifone, era un
pezzo di ghisa, e naturalmente faceva tutto da solo perché lui è
come te, se non fa tutto da solo si sente inutile e...
Ho
finito in silenzio il mio panino.
Il
pomeriggio ho continuato a lavorare, spostando tutto il materiale da
assemblare all'ombra della tettoia, così
che quel caldo infernale mi desse un po' di tregua. Purtroppo
questa soluzione ha tamponato le cose solo per un po', perché la
pelle sul fianco ha ricominciato a brulicare, come abitata da
formiche fatte di fuoco o che so io, che la percorrevano avanti e
indietro, senza sosta.
Poi
le cose sono peggiorate, ed è arrivato l'istinto di grattarmi. Un
prurito del genere non lo augurerei neanche al mio peggior nemico;
nemmeno all'ex di Chiara, quel suo compagno di università che lei
continuava a chiamare amico, o nei casi peggiori collega,
e che ogni tanto si faceva, anche se stavamo insieme, perché la
monogamia è un costrutto patriarcale.
I
morsi sul fianco sembravano aumentare di intensità all'improvviso,
poi il dolore si spegneva per un po', per darmi l'illusione di poter
andare avanti con la mia giornata. Quell'angoscia intermittente mi ha
accompagnato fino a sera.
Ho
guardato più volte il cellulare come uno scemo, sperando che Chiara
mi scrivesse, ma sapevo che non l'avrebbe fatto, lei si fa viva solo
quando ha bisogno, proprio come i gatti.
E se
le avessi scritto io, dicendole che stavo male, mi avrebbe trovato
noioso. Ma di fingere di stare bene, in quel momento, proprio non mi
andava.
Così
mi sono rassegnato a passare la serata da solo, con una birra fredda,
le parole di un film in tv a farmi compagnia, e quella cicatrice
apparsa dal nulla a occuparmi la testa.
Poi è
successa un'altra cosa, altrettanto strana: è squillato il telefono.
Non il cellulare, il telefono di casa, quell'oggetto di antiquariato
che ancora mi ostino a conservare, un po' per nostalgia, un po'
perché spero che tra qualche anno mi valga qualcosa a un mercatino o
su internet.
Mi
sono un po' allarmato, erano forse un paio d'anni che non lo sentivo
squillare e davvero poche persone, ormai, avevano quel numero.
-
Pronto? - ho chiesto titubante. Il silenzio dall'altro lato non mi
rassicurava affatto. Poi una voce flebile di donna ha cominciato a
parlare.
-
Sei...Sei Massimo?
- Sì.
Chi parla?
-
Vediamo se ti ricordi di me - ha detto la voce, ora più sicura,
lasciandosi andare a una risata che ha subito sciolto la tensione.
-
Dammi qualche indizio - ho risposto, e non riuscivo a trattenere un
sorriso.
-
Vediamo, cosa posso dirti...Rimini, settembre
millenovecentonovantotto? È troppo poco come indizio? - E ora potevo
veder sorridere anche lei, ovunque fosse, con quegli occhioni
languidi e le labbra rosse e la fossetta sul mento.
Abbiamo
iniziato a parlare, e sono passate le ore, i giorni, gli anni, alla
finestra, mentre noi eravamo fermi. Non so come spiegarvelo, è come
trovare il segreto per battere il tempo, e mentre per gli altri
quello continua a scorrere come sempre, per te rallenta, si dilata.
Il
mattino dopo mi sono svegliato sul divano, con la cornetta del
telefono ancora in mano e il suo tubare a vuoto che mi rimbombava
nella testa. Ho aperto gli occhi e per un attimo mi sono sentito
davvero felice, e niente più tirare avanti, e non lamentarsi, e
pensare a chi sta peggio. Ero solamente felice. Improvvisamente mi
sono ricordato tutto e mi sono toccato il fianco, ho sollevato la
maglietta, ma non riuscivo a vedere o sentire nulla. Sono andato in
bagno e ho controllato allo specchio. Sparita. Della cicatrice non
c'era più traccia.
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