giovedì 24 dicembre 2020
Le luci di Natale
mercoledì 23 dicembre 2020
Un passo alla volta
martedì 22 dicembre 2020
Omini di pan di zenzero
lunedì 21 dicembre 2020
La fine di tutto
– E così domani parti. Lara mi guardava con i suoi occhioni azzurri, le braccia incrociate, e l'aria sgualcita di chi non credeva sarebbe mai arrivato davvero quel momento. Se mi avesse fissato ancora un po', non sarei riuscito a partire, il giorno dopo. Così continuavo a destreggiarmi tra scatoloni e borse da viaggio, stando ben attento a non alzare lo sguardo. – Ci siamo. Domani. – Credevo che alla fine saresti rimasto. Questo sarà il Natale peggiore della mia vita. Pensai che fosse impazzita, cosa le aveva detto la testa, per tendermi un agguato simile? Una mossa così sinistra non me la sarei mai aspettata da quel faccino angelico. Continuava a guardarmi, gli occhi un po' lucidi, le labbra rosse che mordicchiava freneticamente. Avevo alzato lo sguardo un'altra volta, e l'avevo vista, sul punto di piangere. – Potresti ancora rimanere – aggiunse. E io cominciai a sentire qualcosa che mi si incrinava nel petto, e iniziava ad accartocciarsi. – Abbiamo tutto ciò che ci serve per stare vicini e invece ci allontaniamo. Se ci perdiamo noi, davvero, è la fine. – La fine di tutto? – abbozzai un sorriso del tutto fuori luogo. Lei mi rispose seria: – La fine di tutto. Un racconto che avevo scritto due anni prima si intitolava proprio così; era una sciocchezza fantascientifica condita da una storia d'amore improbabile tra un alieno e un'umana. Lei fu la prima a leggerlo e la prima a trovare bello qualcosa che avevo scritto. “Non ho detto bello, ho detto carino. Dovresti lavorarci un po' su”. E anche se dovevo lavorarci davvero un po' su, e probabilmente riscrivere l'inizio, lo svolgimento e la fine, il fatto che lei l'avesse trovato perlomeno carino mi aveva dato la spinta per continuare a provarci. Magari alcuni riescono davvero a motivarsi senza l'aiuto di nessuno, si guardano allo specchio, ripetono le loro affermazioni, e riescono a non sentirsi stupidi e soli. Ma io ho sempre avuto bisogno che qualcun altro credesse in me, che scorgesse nei miei occhi un destino che io non sapevo vedere, e me lo indicasse, perché, poi, l'avrei seguito, se solo avessi avuto un punto di partenza, se qualcuno avesse fatto per me il primo passo. Lara aveva fatto per me un sacco di primi passi. Mi aveva fatto assaggiare cibi nuovi, mi aveva mostrato quali fossero i libri giusti da leggere, i film giusti da vedere, la giusta musica da ascoltare, mi aveva convinto, nonostante le mie paure, ad andare al mare, mi aveva insegnato a dare un nome alle cose. E, cosa ancora più sorprendente, mi aveva mostrato cose di me stesso che non vedevo, punti ciechi che avrei continuato a ignorare, come ignori qualcosa che ti appartiene da sempre, finché qualcun altro non lo nota e te lo indica. Grazie a lei avevo capito che nell'incontro con l'altro conosciamo meglio noi stessi, ci incastriamo e ci scontriamo, possiamo smussare o acuire gli spigoli, e arriva sempre un momento in cui ci troviamo a chiederci se ne valga la pena. Non importava quanto fossero simmetrici i suoi lineamenti, quanto fosse ipnotico il suono della sua voce, l'allegria della sua risata, non importavano nemmeno i suoi occhioni azzurri. Più di una volta, mi ero chiesto se ne valesse la pena. Avevo dubitato, vagato altrove con lo sguardo, ma poi, quando pensavo a lei, mi accorgevo che qualcosa nel petto iniziava a scaldarsi, i polmoni sembravano respirare meglio, lo sguardo si apriva. Mi ero innamorato. Avevo dovuto aspettare secoli, ma alla fine potevo dire con certezza e anche con un po' di orgoglio di essermi innamorato. E nonostante questo, ero pronto a lasciarla lì, in quella casa vuota, in quei pomeriggi bui già dalle cinque, in quell'anno per lei così difficile. Mi sentivo ignobile e ingrato. Un egoista che si preoccupava solo del suo futuro, incapace di pensare agli altri, forse, persino, incapace di amare. Non meritavo il suo amore, avrebbe dovuto dimenticarmi e sostituirmi con un uomo qualunque, non appena me ne fossi andato. Quanta sfrontatezza c'era nello sperare che lei stesse ad aspettarmi per sempre, nel desiderare le sue lacrime? Ero pure sadico, oltre che egoista. Avrei voluto saperla in quell'appartamento spoglio, in quelle giornate fatte di buio, a ridosso del Natale che per lei era tanto importante, che stringeva al petto la mia foto sfocata e piangeva copiose lacrime in attesa del mio ritorno? Meritavo solo disprezzo. Lo sentivo addosso tutto quel disprezzo per me stesso, era come un prurito da cui non potevo liberarmi, più mi grattavo più aumentava, fino a diventare un dolore insopportabile, fino a che i graffi mi ricoprivano la pelle e cominciavano a bruciare. Eppure, il giorno dopo, sarei partito. Pianeta K-224, viaggio di sola andata, nessun ritorno previsto per i prossimi duecentocinquant' anni. Se anche avessi rimesso piede sulla Terra, non l'avrei più ritrovata. Quei tre anni di esplorazione del pianeta Terra si erano rivelati molto più proficui di quanto avessimo previsto, avevo raccolto centinaia di dati, avrei dovuto solo riordinarli nei nostri database, una volta tornato a casa, e archiviare l'esperienza con soddisfazione per il lavoro svolto nei tempi stabiliti. Guardavo i lucciconi nei suoi occhi azzurri e ripensavo alla prima volta che avevo visto le lacrime, a come mi ero spaventato, in un primo tempo, e a come mi ero sentito inadeguato, dopo, per la mia imbarazzante incapacità di piangere. Le accarezzai il viso e mi sforzai di guardarla negli occhi: – Non credo sarà possibile comunicare, una volta che sarò arrivato. Se mi scoprissero potrebbe essere pericoloso, anche per te. Voglio che questo ti sia chiaro, che non pensi che dipenda da me. – Lo so, me l'hai spiegato tante volte. – Non vorrei che finisse così. La strinsi forte a me, lei nascose il viso nel mio collo. Nello specchio di fronte si rifletteva la mia immagine umana, e vidi una lacrima rigarmi la guancia.
domenica 20 dicembre 2020
Come passerai il Natale? (parte 2)
Dopotutto non è il primo Natale che passerò da sola. C'è stato l'anno in cui Riccardo mi ha lasciata con un sms due giorni prima della Vigilia, trauma da cui mi sono ripresa con una dieta a base di tartufini al cioccolato e dopo aver realizzato con sollievo che non avrei dovuto passare la vita con qualcuno dal nome così spocchioso. Poi c'è stato il Natale a Cortina con trenta persone, che ricordava un filmaccio di Natale non solo nella forma ma anche nei contenuti. Giorni a fissare il mio riflesso nella tazza di cioccolata calda, mentre tutti erano fuori a sciare; sere a fissare la fiamma del camino sperando che qualcuno dei miei compagni di viaggio prendesse fuoco, possibilmente quello che tutti chiamavano Lele e che tra i suoi buoni propositi aveva sicuramente inserito quello di urtarmi il sistema nervoso con battutine sarcastiche e triviali doppi sensi. E come dimenticare il primo Natale che ho passato senza parlare con mia sorella, un evento che pensavo non si sarebbe mai verificato, al pari di un'invasione aliena o della mia rinuncia agli zuccheri semplici. Cose più grandi di me che la mente si affatica a pensare.
Perché dire di essere soli è ancora una confessione scabrosa, imbarazzante, o deprimente? Non tutti quando siamo soli ci ritroviamo a fissare il vuoto e a dividerci col gatto una scatoletta di tonno. La mia solitudine è spesso silenziosa, ma può esserci gioia nel silenzio, il silenzio è beatitudine, il silenzio è fare spazio. Non puoi sapere quante cose affioreranno fino a quando non farai loro spazio, quante cose vecchie ritroverai e quante cose nuove si presenteranno, sentendosi invitate. È un po' come quando fai ordine negli armadi e ritrovi cimeli o ti liberi di ciò che non ti occorre più e ti compiaci di lasciare uno spazio per il vuoto, come consiglia l'Hatha-Yoga Pradipika. E poi la solitudine non è solo manutenzione, ma piacere. Come prepararsi un rooibos alla vaniglia o una cioccolata calda con panna e guardare una puntata della propria serie tv del cuore, o riguardare il proprio film preferito e lasciarsi assorbire da ogni scena, oppure sfogliare le pagine di un libro che stai amando. E poi, insomma, ognuno ha il suo inventario di cose che ama fare da solo e non è che le devo condividere tutte, anzi il punto è proprio questo, qui si annida il piacere: posso tenermele per me, non sono costretta a condividerle con nessuno o ad avere l'approvazione o il biasimo di nessuno. La condivisione è piacevole solo se è una scelta, non se è una costrizione.
– Silvia! Silvia! – una voce mi chiama da lontano. Ah ma certo, è mia madre! Persa nei miei pensieri mi sono completamente dimenticata che colei che mi generò è ancora al telefono a parlare da sola senza accorgersi della mia assenza. – Sì mamma, dimmi. – Allora, tu cosa ne pensi? Ci sono momenti nella mia vita in cui vorrei un pulsante rewind. A pensarci bene, però, sono più i momenti in cui vorrei mettere in pausa o rallentare la velocità. Ecco altre occasioni in cui il silenzio viene in aiuto. – Beh, cosa ne penso...Diciamo che in generale sono d'accordo con te. – Meno male, solo tu mi capisci. Ormai con i tuoi fratelli non mi ci trovo più, mi sei rimasta solo tu. Fingerò di non sapere che probabilmente ha detto la stessa cosa a mio fratello un paio d'ore prima o il giorno prima, e incasso il complimento sperando di non aver appena acconsentito a qualcosa di cui dovrò pentirmi. – Allora siamo d'accordo. Ti aspetto. Del resto chi vuole stare da solo a Natale.
sabato 19 dicembre 2020
Come passerai il Natale? (parte 1)
Al telefono, mia madre mi chiede di trovare un modo per raggiungerla a Natale. Ci dividono mille chilometri e un decreto-legge, sono in una botte di ferro. – Mamma, farò il possibile, ma sai com'è, sarà dura. – Matti ha iniziato a chiedere di te, dice: “Ma la zia verrà con la slitta di Babbo Natale?” Devo ammettere che le sue imitazioni dei bambini nella fascia zero-sei anni sono sempre impeccabili, sarà che quella è pressappoco la sua età emotiva. Il mio nipotino ha già fatto cinque anni. O sei? No, aspetta, sono quattro. Sì, duemilasedici. Parla un sacco, sono i geni di mia madre, è certo, e anche se confonde le effe e le esse, dice la erre al posto della vi, e ogni tanto balbetta, il cinquanta per cento del tempo si riesce quasi a capire quello che sta dicendo. Il più delle volte però mi ricorda quei vecchietti che mugugnano tra sé e sé e non sai mai se ti stanno mandando un anatema. Se io fossi vecchia lancerei continuamente anatemi. L'aggressività ha origine dalla frustrazione, e i motivi per sentirsi frustrati si accumulano con gli anni, le idiosincrasie si irrigidiscono, come le articolazioni. Già adesso, che non sono neppure nel mezzo del cammino, non sopporto quelli che hanno una decina d'anni meno di me, quelli che hanno ancora tutte le strade aperte, anche se poi non è detto che sia così. Dovrei guardarli dall'alto, e aspettare che la vita sorprenda anche loro con inciampi sulla strada, prima o poi accadrà, ma non ho poi tutto questo tempo e questa voglia di stare a guardare le vite degli altri andare in frantumi. E comunque, alla fine, so che non ne ricaverei che una soddisfazione meschina e istantanea, fatta di sabbia, pronta a dissolversi alla prima onda, lasciandomi da sola a osservare l'orizzonte con il solito punto interrogativo conficcato nel petto. E adesso? Cosa succede dopo che la vita ha presentato il conto anche agli altri, dopo che il karma ha fatto il suo giro, o la tua vendetta si è consumata senza che ti sporcassi le mani. Inutile nascondersi, quelle mani sono macchiate lo stesso, non dall'atto ma dall'intenzione. E a te cosa rimane? Cosa hai aggiunto davvero alla tua vita? Puoi scegliere di diventare un vecchio che borbotta e lancia sguardi avvelenati stringendo al petto la pensione, oppure puoi scegliere di diventare un vecchio saggio che ha fatto pace con la vita e che le frustrazioni le ha bruciate al fuoco caldo della consapevolezza. O in alternativa puoi diventare un umarèll e andare a visitare cantieri, è una prospettiva rispettabile, non la escluderei. – Ci sei ancora? – Sì sì, dimmi. – Aspetto una risposta. Mi ha fatto una domanda, e aspetta una mia risposta. Di solito tra i due eventi trascorre un lasso di tempo che mi permette di andare a lavarmi i capelli, preparare la cena, guardare un film con sottotitoli polacchi. Stavolta mi ha preso alla sprovvista. – Puoi ripetere? Non ho sentito. – Come passerai il Natale? Ecco che parte la Quinta Sinfonia di Beethoven, allegro con brio. Le domande di mia madre sembrano semplici, all'apparenza, ma anche le più innocue nascondono spine, e devi stare attenta a come prenderle in mano senza pungerti. – Starò a casa, cosa vuoi che faccia. Sai, il decreto. Silenzio. Cigolio di mani che scivolano sugli specchi. – Mamma? Ci sei? – Eh, sì, ci sono. Eh, hai visto quest'anno, come faremo? Che annata orribile. – Ci rifaremo l'anno prossimo, dai, non preoccuparti – le dico, con l'intento sincero di sollevarle un po' l'umore. Pur dando per scontato che l'anno prossimo a Natale dovrò trovarmi un qualche paese extra-europeo in cui emigrare, di quelli ad alto rischio dove anche la Farnesina sconsiglia di andare, dove le comunicazioni non sono garantite. – E non ti sentirai sola? – Come? – Non ti sentirai sola, a stare a casa da sola, a passare la Vigilia di Natale da sola e il Natale da sola e Santo Stefano e San Silvestro... – E prega per noi! No, mamma, mi piace stare da sola. Altro stacchetto della Quinta di Beethoven. Un'ammissione del genere, per mia madre, è oltraggiosa quanto dire di mettere la pancetta al posto del guanciale nella carbonara, o peggio, dire di fare la carbonara vegetariana, senza tracce di maiale. Povero maialino. Povero animale sacrificale. Povera me. In cosa mi sono andata a cacciare. Questo è il momento di appoggiare il telefono a faccia in giù e andare a farmi qualcosa da mangiare, perché tanto so già cosa dirà. Mi parlerà del passato, di lei che alla mia età era già sposata e con due figli, – condoglianze – di lei che senza figli non si sarebbe sentita donna, – fornire un secchio insieme ad affermazioni simili, grazie – di lei che la prima volta che mi ha tenuto in braccio ha sentito di avere la responsabilità di proteggere la cosa più preziosa che c'era al mondo – beh, questa è carina, potrei piangere, ma non lo farò – . Poi mi parlerà del presente, di mia cugina che ha solo un anno più di me e quest'anno ha avuto una bambina, – nel duemilaventi, che coraggio – della figlia della sua amica di zumba che si è sposata con un ragazzo meraviglioso che fa il medico, – nel duemilaventi, che coraggio – di quanto mi vedrebbe bene con un ragazzo meraviglioso che fa il medico – avercene – . Infine mi parlerà del futuro. Mi dirà che si preoccupa a pensare che sarò da sola, perché più andrò avanti più avrò bisogno di qualcuno – un medico, probabilmente – e la vita è cento volte più faticosa se non la condividi con qualcuno.
Il duemilaventi è stato un anno che ha richiesto coraggio. Il coraggio di stare da soli, per molti, ma anche il coraggio di riconoscere che abbiamo bisogno degli altri, perché non credo che siamo incompleti senza gli altri, ma, probabilmente, meno ricchi. Ci vuole coraggio anche ad ammettere che non tutte le relazioni ci arricchiscono, anzi molte ci impoveriscono, abbassano le nostre difese immunitarie, fanno sbiadire i nostri veri colori; richiede molto coraggio distinguere le une dalle altre, e riuscire a lasciare andare quelle che non ci fanno bene, nelle quali spesso siamo invischiati a causa dell'abitudine e della nostalgia che, come melassa, ci tengono appiccicati al passato. Perché condividere la vita con qualcuno non significa condividerla con chiunque, e questo malinteso, nella sua banalità, può risultare fatale. Il risvolto lieto e sorprendente delle situazioni drammatiche che richiedono dosi smisurate di coraggio è che scopriamo di avere dentro di noi quella forza emotiva che ci occorre, o se non ce l'abbiamo la costruiamo pian piano, in diretta. E se da un lato vorremmo crollare, e a volte lo facciamo pure, perché negarci questo diritto, dall'altro lato resistiamo, e nel resistere ci sentiamo di nuovo vivi e capaci di rivoluzioni. – Silvia, ma ci sei? Mi stai ascoltando? – la voce di mia madre gracchia dal telefono abbandonato a faccia in giù. – Sì, ci sono. – Hai sentito quello che ti ho detto? – Sì. – E cosa stavo dicendo? Quinta sinfonia di Beethoven colonna sonora di questa telefonata al cardiopalma. – Parlavi della figlia di quella tua amica di zumba. – La figlia di Laura...Ah ma allora mi stavi ascoltando! Riappoggio il cellulare a faccia in giù, abbiamo ancora un po' di tempo.
venerdì 18 dicembre 2020
Attenzione! Fragile! Maneggiare con cura!
Per me non è Natale finché non vado da Mia. Mia è nato come vivaio: piante dai nomi esotici, più sobrie piante d'appartamento con nomi da moschettieri come il ficus e il pothos, simpatiche piante grasse, le mie preferite, forse l'unica specie vegetale che non sono ancora riuscita ad ammazzare. Senza dimenticare naturalmente i fiori: fiori che ricordano quelli assassini di Jumanji, mazzi di rose, camelie, narcisi, ciclamini, iris, rododendri...Non sono affascinanti i nomi dei fiori? Passeggerei tra quelle corsie verdeggianti per ore, inebriata dal profumo silvestre e dalle particolarità di ogni foglia o petalo: le sfumature di colori, le forme, le venature. Ogni cosa è viva e respira e forse mentre respira mi stordisce di anidride carbonica, chi lo sa, chi se la ricorda la fotosintesi clorofilliana. Ad ogni modo è rilassante passeggiare lì in mezzo, c'è lentezza, pace, ritmo di sogno, se non fosse per qualche bambino delinquente che a volte scappa al controllo genitoriale e saltella qui e lì turbando il mio dialogo con le piante e il mio equilibrio interiore. Ma da Mia non ci sono solo le erbette, i fiori e li arbuscelli; vendono anche accessori per la casa, i cosiddetti complementi d'arredo, che come espressione già mi fanno pensare a una me risolta e soddisfatta dalla vita, che arreda casa con gusto sobrio ma non banale, stile sofisticato ma non pretenzioso, una di quelle donne che non escono mai con mutande e reggiseno spaiati e sanno sempre cosa ordinare al ristorante. I complementi d'arredo che più attirano la mia attenzione, poi, sono in realtà candele dai profumi di torta appena sfornata, cuscini sprimacciosi, copertine pelose con le stelle che si illuminano al buio, e una serie di altri ammennicoli forse non esattamente da donna sofisticata che ha tutto sotto controllo, quanto da eterna bambina/adolescente che ancora si esalta a pensare di costruire un fortino con le lenzuola. Ma il periodo natalizio è clemente, e una delle sue concessioni è proprio quella di farci regredire a stadi di sviluppo passati senza sensi di colpa, godendone solo i benefici, ignorandone i pericoli. Ed è proprio a Natale che Mia si trasforma e dà il meglio di sé, diventando l'ambientazione di un trip da acidi natalizio, o la succursale di un villaggio di Babbo Natale, se preferite. Tutto il negozio, dalla porta scorrevole d'ingresso, agli angoli più reconditi di ogni mensolina, fino alla grande sala centrale, e poi fino all'uscita, è disseminato di decorazioni per l'albero e per la tavola, festoni, lucine, ghirlande. E allora entro da Mia trionfante, sapendo che come una calamita attirerò a me tutto ciò che è cozy. Candela al caramello-bruciato-perché-ti-eri-distratta-a-guardare-i-pop-corn-che-scoppiettavano-allegri? Mia! Coperta rosso Natale con maniche, cappuccio e tasca per il telecomando? Mia! Borsa d'acqua calda con pon-pon bianco innevato? Beh, che dire... Mia! Il mio carrello canterà a squarciagola Luci a San Siro e non rinuncerò neppure alle tazze con le corna di renna, perché il confine tra il cozy e il trash talvolta è sottile e a Natale mi piace rischiare di valicarlo ad ogni passata di carta di credito. Qualcuno potrebbe obiettare che questa è una visione consumistica del Natale, che i valori della festa sono altri, e avrebbe sicuramente il mio ascolto e il mio zzz rispetto. Ma per quanto mi riguarda è una festa pagana in cui voglio solo stare a casa con le persone a cui voglio bene, guardare i film che amo, mangiare i miei piatti preferiti, leggere, scartare regali e sfidare parenti e amici ai giochi da tavolo. Se penso ai pezzi che quest'anno mancheranno al mio puzzle di Natale, un po' mi viene il magone. Alcune sono solo tradizioni messe in attesa, e si accettano senza particolari traumi, altre invece sono cose che ho visto finire, persone che ho dovuto salutare. Vorrei credere che mettere insieme tutti i nostri pezzi mancanti potesse servire ad attutire un po' il silenzio, a riempire un po' il vuoto. Vorrei tanto che le parole riuscissero a tendere una mano e a trovarne, con sorpresa, un'altra da stringere. So che forse è un pensiero ingenuo, ma è una concessione che mi farò, dopotutto il periodo natalizio è clemente. Domani andrò da Mia, farò tutto con calma, attenta a non urtare niente mentre mi muovo: ci sono palline di vetro preziose e fragili che potrei frantumare con un gesto distratto o impacciato, un'imperdonabile noncuranza. Mi aggirerò, accorta, tra gli scaffali luminosi e mi rifletterò negli specchi. Farò un selfie che poi non avrò il coraggio di mandare. Incontrerò qualcuno che mi ricorda lui. Poi comprerò le tazze con le corna di renna e i marshmallow a forma di stella e andrò a casa a farmi la cioccolata calda fondente, con una quantità di panna tale da far impallidire qualunque nutrizionista, anche il più benevolo. Cercherò di dimenticare tutto e mi ricorderò di tutto.