domenica 30 agosto 2020

Sogno di una notte di fine estate



La gente non la smetteva di sbuffare, guardare il cellulare e sventagliarsi con il programma della messa. Faceva così caldo che le pareti si sarebbero potute liquefare da un momento all'altro, e tutta la cerimonia si sarebbe trasformata in un quadro di Dalì lasciato a marcire per i posteri. Non si sarebbe mai visto un album di nozze così.
Marco mi prese sotto braccio e mi allontanò dalla folla di parenti.
- Puoi dirmi dov'è finita tua sorella? - mi chiese con una voce più impaziente di quanto avrei voluto.
- E io cosa ne so? Nemmeno volevo farle da testimone.
- Ma sei sua sorella!
- Quello è un caso, cose che capitano.
Mi guardò stancamente, forse il caldo e l'attesa avevano prosciugato tutta la sua pazienza, o forse ci erano riusciti i vent'anni di amicizia con noi. Tanti avevano ceduto molto prima.
- Marco, non so proprio cosa dirti, non ho idea di dove sia.
- Pensi che...Insomma, pensi che abbia cambiato idea? Se sai qualcosa, dimmelo.

Sapevo che lei avrebbe potuto fare qualcosa del genere. Sapevo che si sarebbe persino divertita a fare una cosa del genere. Poco importava andare fino in fondo o meno, arrivare con due ore di ritardo o non arrivare affatto. Dopo qualche anno ne avrebbe parlato come di un'impresa audace che aveva sollevato tutti dalla condanna dell'ennesimo matrimonio noioso. Avremmo dovuto esserle grati, addirittura, per aver fatto della sua vita una continua sorpresa, un'opera d'arte d'improvvisazione creativa, anziché rispettare un copione scontato e sgualcito.
Provavo un po' di pena per Marco, ma non troppa, perché comunque lui se l'era cercata una così, l'aveva scelta nonostante tutte le alternative, anche quelle più accessibili.
"Tu non sei mai stata accessibile, davvero pensi questo di te? Tu coltivi rovi di spine attorno a te e poi ti rattristi perché gli altri per raggiungerti si feriscono e rinunciano". L'ultima volta che me l'aveva detto indossava un vestito da sposa, ne stava provando una trentina, e io ero lì ad aiutarla e a osservarla nello specchio. Mi immaginai i roseti e i rovi e il povero Cristo di turno che cercava di farsi strada per arrivare a me, che stavo tipo adagiata su un albero come la madre di Segantini, dipinto che adoro, ma invece di stringere al petto il bambino paffuto io non stringevo niente, il vuoto, e aspettavo. E poi immaginai il suo vestito candido sporco di sangue, il sangue di chi si era ferito per raggiungere me, e ora stava sposando lei.
Nostra madre diceva che due sorelle non dovrebbero mai scambiarsi vestiti e fidanzati, perché in entrambi i casi finisce in lacrime. Quando lo diceva, io rispondevo con tono sfacciato: "Non preoccuparti, non c'è pericolo, noi non abbiamo la stessa taglia". Il tempo si è rivelato poi ancora più sfacciato nello smentirmi. Uno a zero per lui.

- Insomma, cosa facciamo?
Lo sposo sull'orlo di una crisi di nervi cercava in me la soluzione, e io mi trovavo ancora una volta a risolvere i casini di mia sorella, mentre lei probabilmente era da qualche parte con un cocktail in mano a sorseggiare dalla cannuccia una vita che io non potevo avere. Mi mancava il carattere e forse il talento, mentre una dose in eccesso di senso di colpa mi avrebbe inchiodato alle conseguenze di qualunque mia azione audace.
Avere quegli occhi incollati addosso aumentava il mio senso di soffocamento, come se l'afa non fosse sufficiente. Marco mi guardava, il prete mi guardava, i trecento invitati mi guardavano; erano più di seicento occhi puntati addosso, non si scherza con più di seicento occhi puntati addosso.
La tentazione di fingere un malore e scappare da quella situazione assurda e da quegli sguardi affamati era eccitante come progettare una fuga da scuola, come non presentarsi a un esame, come prendersi un giorno libero dalle responsabilità. Solo che, dopo, quelle ti aspettano, non lo perdono il tuo numero, come fanno i tizi che incontri una sera e poi non ti richiamano, non si dimenticano di te. Ti svegli il giorno dopo o cinque anni dopo e quelle cose che hai evitato e dalle quali sei fuggita con tanta esaltazione e tanto sollievo sono ancora lì, ad aspettarti, solo più minacciose, più oscure, un po' marce e andate a male. Mia madre diceva che guardare la realtà negli occhi paga sempre, anche se all'inizio è più doloroso che voltarsi dall'altra parte e scappare. E così guardai la realtà negli occhi, tutti e seicento, e poco più.
- Scusate, vi chiedo un attimo di attenzione. So che siete stanchi, fa molto caldo oggi, e tanti di voi sono venuti da lontano...
Zia Mary e zio Tony si sistemarono sulla panca e poi si guardarono attorno come a segnalare a tutti gli altri invitati il valore della loro presenza. Feci un cenno cortese e un mezzo sorriso nella loro direzione e continuai.
- Purtroppo devo dirvi che oggi non ci sarà nessun matrimonio, mia sorella non verrà.
Un boato riempì le navate della chiesa come non erano riuscite a fare le dozzine di calle e orchidee che mia sorella si era ostinata a disseminare ovunque, dal vestibolo all'altare.
- Mi dispiace, capisco che sia davvero spiacevole per tutti voi, ma dopotutto da mia sorella una cosa del genere ce la potevamo aspettare. Ad essere sincera, non credo nemmeno l'abbia mai amato Marco. Del resto, se l'avesse amato ora non ci troveremmo in questa situazione, giusto?
Marco mi guardava impietrito come la statua del Cristo alle sue spalle, le mie parole erano state i chiodi che l'avevano crocifisso. Muoveva le labbra ma non riuscivo a sentire cosa mi stesse dicendo. Aveva gli occhi lucidi, scuoteva la testa e parlava una lingua che non capivo.
- Cosa? Non capisco, parla più forte!
Mi avvicinai a lui per sentire meglio, e lui di nuovo mi prese il braccio, come aveva fatto poco prima, e mi trascinò nella stanza delle confessioni, mentre le voci di tutti gli invitati si arrampicavano le une sulle altre e le mogli sgomitavano e i mariti si chiedevano se almeno ci sarebbe stato il buffet.
Marco chiuse la porta della stanzetta dove un'ora prima il prete si era vestito, convinto di passare un'altra noiosa domenica delle sue, tra benedizioni, ostie e strette di mano. Ora il pover'uomo stava ritto sull'altare con la faccia più pallida della sua tonaca, a osservare una folta ressa inferocita che avrebbe spinto chiunque alla vita monastica e solitaria.
Ma il frastuono mi arrivava attutito, lì nella piccola e spoglia stanzetta, dove Marco mi guardava con gli occhi spalancati e increduli, e mi stava prendendo le mani.
- Ma cosa hai detto? Perché non ne hai parlato con me, prima?
- Mi dispiace, non volevo certo farti del male, ma bisogna guardare negli occhi la realtà. Lei non ti ama. Lei non va bene per te. Io ti amo. Io vado bene per te.
Forse ero impazzita, ma sentivo il coraggio scorrermi dentro ed era come sentirsi vivi, per la prima volta dopo tanto tempo. Se anche fosse andata male, se anche fosse stato il disastro che si preannunciava, e lui non mi avesse più voluto vedere o parlare, ne sarebbe comunque valsa la pena, qualsiasi cosa pur di sentire quella sensazione così forte e pulsante di vivere, per una volta, e non soltanto di assistere alla vita.
Lui mi guardò per ore senza dire nulla, poi mi accarezzò una guancia, mi bisbigliò qualcosa all'orecchio che mi fece sorridere, anche se non ricordo cosa disse.
- Senti, gli invitati ci sono già tutti, i miei e i tuoi, il prete c'è...
- Se non gli è venuto un infarto.
- Se non gli è venuto un infarto. È agosto. Non hai sempre detto che ti saresti voluta sposare ad agosto?
Veramente era settembre, ho sempre detto che mi sarei voluta sposare a settembre, ma non mi sembrava il momento di contraddirlo, così annuii.
- Facciamolo. Sposiamoci!
Era tutto troppo bello per essere vero, ma era giusto che per una volta le cose troppo belle per essere vere lo fossero comunque, è l'eccezione alla regola, è una concessione del destino dopo una vita di sconfitte. Uno a zero per me, stavolta.
- Facciamolo.
- Facciamolo! - disse lui sorridendo, un sorriso raggiante, disteso, ampio, che si allargava sempre più, come in quel video dei Soundgarden, fino a sciogliersi su tutta la faccia, con gli occhi spalancati e fissi e la testa che si inclinava da un lato.

Il cellulare squillò.
- Dove sei finita? Stiamo aspettando tutti te!
- Scusami, ho fatto tardi, la sveglia non è...
- Sbrigati, non posso mica sposarmi senza mia sorella!
Mi alzai e riuscii a battere tutti i record preparandomi in dieci minuti secchi, una rapidità di cui mi sarei pentita guardando le foto. Poco dopo ero in chiesa, con gli occhi di tutti addosso, mia sorella era splendida nel suo vestito candido e Marco la guardava come se la vedesse per la prima volta.
Stavo guardando la realtà negli occhi, e faceva male. Uno a zero per lei.





domenica 9 agosto 2020

L'ultimo bicchiere



Un uomo entra in un bar. Il posto è uno di quelli fermi a trenta o quarant'anni fa. Sedie nere di plastica col fondo bucherellato, la Gazzetta dello Sport sgualcita sul bancone, il tavolino appiccicoso, il ventilatore che va a scatti e il condizionatore ingiallito e fuori uso. Proprio di fronte a dove si è seduto, troneggia il frigo con i gelati chiusi a chiave, le macchinette del videopoker sono invece nel corridoio in ombra (una è fuori servizio, come indica un foglio scritto a mano): il rumore di tanti colpi di proiettile, quando qualcuno vince qualcosa, arriva improvviso a svegliare dal torpore i pochi presenti. Sul muro sono appesi due orologi, uno a lancette, uno digitale, a segnare il passare di un tempo che non passa mai, quando entri lì dentro. La ragazza cinese sta nascosta dietro allo spillatore della birra, ma i suoi occhi spuntano allarmati quando qualcuno si avvicina troppo al frigo dei gelati o alla mensola con le bottiglie di spumante schierate a prendere polvere. Alle pareti, foto di Frank Sinatra nel bar in bianco e nero di qualche film. Un insetto zampetta sul bordo della finestra, la sua ombra si proietta sul tavolino e lo fa sembrare molto più grande. Momenti di gloria per chi non ci è abituato. 

- Si diventa troppo vecchi, l'ho sempre detto io - borbotta un vecchietto rivolgendosi al suo amico.
- È che gli anni passano troppo in fretta, sembra ieri che eravamo giovani noi - risponde l'altro, pronto a sferrare briscole e luoghi comuni.
Avranno vent'anni più di lui, e sembrano essersi calati nella parte molto bene, sono uguali ai vecchietti dei bar che incontrava da ragazzo, sempre gli stessi, una presenza obbligatoria, quasi te li consegnassero insieme al bancone e alla macchina del caffè, quando decidevi di aprire un bar in provincia. Il suo sguardo, invece, è un po' cambiato, non li guarda più con gli occhi curiosi del bambino, con l'entusiasmo strafottente del ragazzo, o con il rispetto benevolo del giovane uomo.
Ora li guarda con compassione: soffre con loro e si chiede quando toccherà a lui, perché la distanza tra lui e loro si è accorciata più di quanto avrebbe mai creduto possibile.
Il tempo è volato, le correnti l'hanno portato da una parte e dall'altra, gli spifferi si fanno sentire dalle porte che pensava di essersi chiuso alle spalle.

Il palazzo era di pietra arenaria color lapide, e si ergeva di fronte a un cortile di sassi e terra battuta, nemmeno un fiore di campo osava crescere. Lo chiamavano semplicemente il collegio, ma lui sapeva il vero nome, l'aveva inciso nel cuore come nel marmo di quell'insegna davanti alla scalinata: Convitto delle suore per l'infanzia abbandonata. L'infanzia abbandonata. Quelle parole lo inchiodavano come una condanna a vita, un destino segnato fin dall'inizio, da cui avrebbe cercato di fuggire tante volte, senza mai seminarlo. 
Il lavoro, la famiglia, gli amici, il poco tempo libero: pezzi di puzzle da mettere insieme con azzardata fiducia, mentre convivi col sospetto che nella scatola non ci siano tutti i tasselli e che a te mancherà sempre qualcosa.
Chi riempie la cassetta degli attrezzi e dei privilegi con cui nasciamo? Perché alcuni nascono con le spalle sempre coperte e altri costretti invece a guardarsi sempre le spalle? 
Lui camminava fischiettando, e sembrava non farsele queste domande. Arriverà il giorno in cui se le farà, e gli cadranno addosso come i massi, lungo le strade, che le reti non sono più riuscite a contenere. A volte si lascia sfuggire qualche frase fatta: "Si tira a campare", "Si tira avanti", e poi sorride, ma non è una risata, è più uno sbuffo, l'amara rassegnazione a pensieri che un tempo odiava e non avrebbe mai voluto fare. È la "mentalità della scarsità", la stessa che ha plasmato anche i suoi figli, fin dall'inizio. Il destino dei padri abbraccia e soffoca i figli, una condanna in eredità, una tragedia greca che si consuma mentre si mangia davanti alla televisione. 
Lì ha origine quella sensazione di non potersi permettere certe cose, di non poter ambire a certi sogni. Come se quella scarsità di risorse, prima anche materiale, fosse rimasta solo psicologica, ma comunque sufficiente per impedire di raggiungere ciò che si desidera, o di fare anche solo un passo in quella direzione. Come rendi reale qualcosa che non ti concedi nemmeno di immaginare?
E chi cerca di cambiare il proprio destino compete con una forza più grande di lui, con la forza di un dio iniquo dal sorriso beffardo come un ghigno. Sfida gli sguardi e le risate di chi commenta osservando dal divano, di chi gli vende facili ricette per la felicità, magari condite di senso di colpa. Chissà perché a volte pensiamo che le regole che hanno funzionato per noi debbano necessariamente funzionare per gli altri, come se la vita degli altri, una massa informe, non aspettasse altro che il nostro stampino, e il nostro timbro di approvazione. 

- Un'altra. Per favore.
La ragazza cinese arriva e lascia scivolare sul tavolo un altro bicchiere, colmo di birra. Lancia un'occhiata malevola ai vecchietti senza mascherina, poi si dilegua dietro al bancone.
La birra non è buona come quella che lui beveva in Germania, l'unico ricordo bello di quel periodo orrendo, ma dopo il quinto o sesto bicchiere il sapore non è poi così importante.
I suoi figli credono di aver ereditato un destino triste, ma la condanna non è la stessa, perché la sua infanzia strappata, corrosa, abbandonata, non la immaginano, neanche nei loro incubi. Al massimo l'hanno vista in qualche film, l'hanno letta nei racconti di Dickens. Lui non ne parla. 
Affoga lo sguardo nel bicchiere vuoto. Gli occhi vacillano. Ecco i colpi di proiettile, uno appresso all'altro, rapidi e sonanti: una cascata di monete e le urla sconnesse di qualcuno che quella sera andrà a casa felice.