domenica 9 agosto 2020

L'ultimo bicchiere



Un uomo entra in un bar. Il posto è uno di quelli fermi a trenta o quarant'anni fa. Sedie nere di plastica col fondo bucherellato, la Gazzetta dello Sport sgualcita sul bancone, il tavolino appiccicoso, il ventilatore che va a scatti e il condizionatore ingiallito e fuori uso. Proprio di fronte a dove si è seduto, troneggia il frigo con i gelati chiusi a chiave, le macchinette del videopoker sono invece nel corridoio in ombra (una è fuori servizio, come indica un foglio scritto a mano): il rumore di tanti colpi di proiettile, quando qualcuno vince qualcosa, arriva improvviso a svegliare dal torpore i pochi presenti. Sul muro sono appesi due orologi, uno a lancette, uno digitale, a segnare il passare di un tempo che non passa mai, quando entri lì dentro. La ragazza cinese sta nascosta dietro allo spillatore della birra, ma i suoi occhi spuntano allarmati quando qualcuno si avvicina troppo al frigo dei gelati o alla mensola con le bottiglie di spumante schierate a prendere polvere. Alle pareti, foto di Frank Sinatra nel bar in bianco e nero di qualche film. Un insetto zampetta sul bordo della finestra, la sua ombra si proietta sul tavolino e lo fa sembrare molto più grande. Momenti di gloria per chi non ci è abituato. 

- Si diventa troppo vecchi, l'ho sempre detto io - borbotta un vecchietto rivolgendosi al suo amico.
- È che gli anni passano troppo in fretta, sembra ieri che eravamo giovani noi - risponde l'altro, pronto a sferrare briscole e luoghi comuni.
Avranno vent'anni più di lui, e sembrano essersi calati nella parte molto bene, sono uguali ai vecchietti dei bar che incontrava da ragazzo, sempre gli stessi, una presenza obbligatoria, quasi te li consegnassero insieme al bancone e alla macchina del caffè, quando decidevi di aprire un bar in provincia. Il suo sguardo, invece, è un po' cambiato, non li guarda più con gli occhi curiosi del bambino, con l'entusiasmo strafottente del ragazzo, o con il rispetto benevolo del giovane uomo.
Ora li guarda con compassione: soffre con loro e si chiede quando toccherà a lui, perché la distanza tra lui e loro si è accorciata più di quanto avrebbe mai creduto possibile.
Il tempo è volato, le correnti l'hanno portato da una parte e dall'altra, gli spifferi si fanno sentire dalle porte che pensava di essersi chiuso alle spalle.

Il palazzo era di pietra arenaria color lapide, e si ergeva di fronte a un cortile di sassi e terra battuta, nemmeno un fiore di campo osava crescere. Lo chiamavano semplicemente il collegio, ma lui sapeva il vero nome, l'aveva inciso nel cuore come nel marmo di quell'insegna davanti alla scalinata: Convitto delle suore per l'infanzia abbandonata. L'infanzia abbandonata. Quelle parole lo inchiodavano come una condanna a vita, un destino segnato fin dall'inizio, da cui avrebbe cercato di fuggire tante volte, senza mai seminarlo. 
Il lavoro, la famiglia, gli amici, il poco tempo libero: pezzi di puzzle da mettere insieme con azzardata fiducia, mentre convivi col sospetto che nella scatola non ci siano tutti i tasselli e che a te mancherà sempre qualcosa.
Chi riempie la cassetta degli attrezzi e dei privilegi con cui nasciamo? Perché alcuni nascono con le spalle sempre coperte e altri costretti invece a guardarsi sempre le spalle? 
Lui camminava fischiettando, e sembrava non farsele queste domande. Arriverà il giorno in cui se le farà, e gli cadranno addosso come i massi, lungo le strade, che le reti non sono più riuscite a contenere. A volte si lascia sfuggire qualche frase fatta: "Si tira a campare", "Si tira avanti", e poi sorride, ma non è una risata, è più uno sbuffo, l'amara rassegnazione a pensieri che un tempo odiava e non avrebbe mai voluto fare. È la "mentalità della scarsità", la stessa che ha plasmato anche i suoi figli, fin dall'inizio. Il destino dei padri abbraccia e soffoca i figli, una condanna in eredità, una tragedia greca che si consuma mentre si mangia davanti alla televisione. 
Lì ha origine quella sensazione di non potersi permettere certe cose, di non poter ambire a certi sogni. Come se quella scarsità di risorse, prima anche materiale, fosse rimasta solo psicologica, ma comunque sufficiente per impedire di raggiungere ciò che si desidera, o di fare anche solo un passo in quella direzione. Come rendi reale qualcosa che non ti concedi nemmeno di immaginare?
E chi cerca di cambiare il proprio destino compete con una forza più grande di lui, con la forza di un dio iniquo dal sorriso beffardo come un ghigno. Sfida gli sguardi e le risate di chi commenta osservando dal divano, di chi gli vende facili ricette per la felicità, magari condite di senso di colpa. Chissà perché a volte pensiamo che le regole che hanno funzionato per noi debbano necessariamente funzionare per gli altri, come se la vita degli altri, una massa informe, non aspettasse altro che il nostro stampino, e il nostro timbro di approvazione. 

- Un'altra. Per favore.
La ragazza cinese arriva e lascia scivolare sul tavolo un altro bicchiere, colmo di birra. Lancia un'occhiata malevola ai vecchietti senza mascherina, poi si dilegua dietro al bancone.
La birra non è buona come quella che lui beveva in Germania, l'unico ricordo bello di quel periodo orrendo, ma dopo il quinto o sesto bicchiere il sapore non è poi così importante.
I suoi figli credono di aver ereditato un destino triste, ma la condanna non è la stessa, perché la sua infanzia strappata, corrosa, abbandonata, non la immaginano, neanche nei loro incubi. Al massimo l'hanno vista in qualche film, l'hanno letta nei racconti di Dickens. Lui non ne parla. 
Affoga lo sguardo nel bicchiere vuoto. Gli occhi vacillano. Ecco i colpi di proiettile, uno appresso all'altro, rapidi e sonanti: una cascata di monete e le urla sconnesse di qualcuno che quella sera andrà a casa felice. 




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