domenica 15 marzo 2020

Frammenti di luce dalla quarantena




Interno notte. Lei si rigira nel letto inquieta, in un bozzolo di lenzuola sfatte.
“Nel migliore dei mondi possibili, adesso saremmo insieme”, pensa. “Ce la faremmo insieme, questa maledetta quarantena”. Il televisore del vicino si è acceso, arrivano le urla dai muri di filigrana, rumori di posate e colpi di tosse. Saranno più o meno le due. Dovrebbe approfittare delle notti senza turni, mascherine e camici, e recuperare il sonno, eppure non riesce.
Quando non riesce a dormire le opzioni sono tre: mettersi a leggere il libro abbandonato sul comodino da troppo tempo, andare sul balcone a fumarsi una sigaretta, chiamare lui.
La terza, ovviamente, è da escludere. Conta poco l'emergenza che lampeggia dai telegiornali alle strade, l'ansia che le stringe il cuore e lo spinge a pulsare ossessivo per fuggire a quella morsa.
Lei sa già come andrà a finire, se invierà quel messaggio, se le sue dita cederanno al ticchettio rassicurante e ingenuo di un numero che sa a memoria, poco importa le volte che lo ha cancellato dalla rubrica. Come andrà a finire? Si scontrerà contro quel muro di indifferenza glaciale che certe persone sanno tirar su da un giorno all'altro, senza preavviso, e poi altrettanto rapidamente abbattere, all'occorrenza (la loro). Ci è passata troppe volte da quella strada, per non riconoscere gli ostacoli sul sentiero, i cartelli con le direzioni da seguire, i segnali di allarme.
Il libro la guarda con fare mansueto e accogliente dal comodino, come a dirle: “Io non serbo rancore, lo sai. Pazienza se mi hai aperto tre mesi fa e poi lasciato qui con questa fitta tra le pagine, solo, ripiegato su me stesso, senza uno scopo. Si vede che avevi altro da fare, o non te la sentivi.
Io ti ho aspettato qui. Io ci sono sempre. Possiamo riprendere da dove avevamo lasciato, o ricominciare da capo.”
Lei sorride, tentenna, sospira. Il fatto è che leggere è abbandonarsi, lasciarsi andare, fluire con le parole di qualcun altro che a volte sono proprio le tue, quelle che non sapevi dire; ma in questo momento lei non è pronta a lasciarsi trasportare, il peso delle preoccupazioni la inchioda a terra, immobile e impotente. La mente a volte è una gabbia da cui si esce solo con l'aiuto del corpo, non del pensiero. “Dovrei smettere di fumare, sono secoli che mi dico che dovrei smettere...Ma come faccio, proprio adesso, ci manca anche questa...Facciamo che questa è l'ultima, poi ci provo sul serio...”. Allunga il braccio per raggiungere il pacchetto di sigarette che giace beffardo nel cassetto ed estrae l'ultima di una serie di ultime sigarette della sua vita. Poi si alza, a piedi nudi sul parquet, si guarda un po' intorno in cerca dell'accendino a forma di mappamondo, un suo regalo, misteriosamente sopravvissuto alla strage che a inizio quarantena l'aveva portata a conservare solo oggetti forieri di gioia. Lei si accende la sigaretta con la concentrazione di chi assapora una sua “ultima volta”, inspira ad occhi chiusi, espira con la bocca socchiusa in un soffio. Prende dal cassetto delle calze pesanti, le indossa, apre la finestra e va sul terrazzo. Dieci minuti d'aria.
Il cielo povero di stelle pesa sulla sua testa; primo giorno, quinto giorno, quindicesimo...I giorni si confondono. Non si sa di preciso quanto durerà o come tutto, dopo, riprenderà il suo posto.
Certo per qualcuno sarà più difficile che per qualcun altro, ma non esiste una bilancia a due piatti tarata sul dolore di chi soffre. Ognuno si stringe al petto il suo, e un giorno forse lo lascerà andare, senza però scordarlo mai del tutto. Anche il dolore, come ogni cosa, si trasforma. E l'emergenza rivela zone d'ombra su cui lavorare, fa luce sulle cose e sulle persone. Lei si stringe addosso il maglione, simulando un abbraccio che non può ricevere, il fumo dei pensieri le sta di nuovo annebbiando la mente. Ma all'improvviso, dalla finestra di fronte, si accende una luce.
Gli occhi di lei sbattono come quelli di un cerbiatto, il collo si allunga per sbirciare meglio, e la sua mano accarezza l'aria per dissipare il fumo.
Un ragazzo esce sul balcone, forse anche lui in cerca dei suoi dieci minuti d'aria, anche lui insonne, sveglio, in questa notte cupa. È alto, moro, probabilmente l'avrà incrociato mille volte, come tutti quelli del palazzo di fronte, e mille volte l'avrà salutato distrattamente, con gli occhi bassi, oppure ignorato del tutto, in quella vita che a volte percorriamo da sonnambuli.
Ora lo scruta incuriosita e vorrebbe essere più vicina per vederlo meglio, osservarlo, parlargli, persino. Lui si avvicina una sedia, si siede e imbraccia la chitarra. Ecco chi è, il ragazzo che suona e non la lascia mai riposare! Era un po' che non si sentiva, allora abita ancora lì...
Il plettro accarezza le corde fino a farle vibrare lievemente. La musica arriva soffusa e ovattata, segno evidente e accorto dell'amplificatore tenuto al minimo, eppure lei vorrebbe alzare il volume al massimo, sentire quella musica fragorosa riempire il cielo. Suoni lanciati in aria come stelle comete, da guardare incantati, col riflesso della luce tremolante negli occhi accesi.
Lui inizia a cantare, lei lo guarda rapita. Conosce quella canzone, ogni parola e ogni accordo familiari eppure nuovi, inediti in quel momento, vitali. Ed è allora che lei comincia a muovere i piedi, a dondolare lentamente i fianchi, a sollevare le braccia verso il cielo e a ondeggiare: incomincia ad abbandonarsi, a lasciarsi andare, a fluire con la musica. Un richiamo viscerale che dà voce a bisogni più sottili e profondi perché le parole possano tenere il passo. La via d'uscita talvolta è attraverso il corpo. Il ritmo aumenta, il suo cuore batte libero nel petto, non più costretto, e lei si lascia trasportare, noncurante dello sguardo del ragazzo. Ballate come se nessuno vi guardasse, era così, giusto?





domenica 8 marzo 2020

Lettera a C.




Ho in testa troppo rumore per tradurlo in parole, da alcuni giorni faccio fatica a respirare e faccio fatica a mangiare. È l'ipocrisia che mi soffoca, l'ingiustizia che mi stringe la gola, e troppe cose disgustose da digerire mi impediscono di nutrirmi di altro, non c'è posto per altro. Le ossessioni ti rubano il tempo e ti consumano, me lo dicevi sempre anche tu. In questi giorni sospesi in cui cerco certezze negli altri e mai in me stessa, giorni di sguardi circospetti e pregiudizi latenti, ti penso più del solito. Mi sono abituata alla tua assenza, nella quotidianità sopita e molle, nei giorni pigri che si assomigliano come fili d'erba, ma in circostanze eccezionali il dolore di non averti qui si rinnova, la mancanza si acuisce come un male silente che occupa il tuo corpo e solo ogni tanto riaffiora. Ricaduta. Una parola che sa di sconfitta, di vergogna. Vorrei fossi qui, anche se non posso più dirtelo, perché è cambiato tutto.               
Vorrei riconoscerti come riconosco la mia immagine allo specchio, provando a volte rabbia e disprezzo, a volte gioia e sollievo, ma, in fondo, sempre con l'indulgenza di chi ritrova tratti familiari. Non eravamo fatte l'una per l'altra, se così si può dire, eppure potevo guardarti e riconoscerti, mentre ora sei un'ombra, impalpabile e oscura. Non si abbracciano le ombre, se ci provi finisci per confonderti nel buio e perdere la via d'uscita.
Vorrei raccontarti quello che mi succede, gli sbagli che faccio, le cose che a volte, per fortuna o per merito, azzecco, e vorrei sentire cosa ne pensi, perché il tuo giudizio era un filtro che mi permetteva di mettere le cose a fuoco. Vorrei confidarti le cose che non riesco a dire mai a nessuno, abbattere i muri, gli schermi, le distanze, guardarti negli occhi, abbracciarti, anche se la distanza di sicurezza è di un metro e sappiamo entrambe che è pure poco. 


E tu, come stai? Ci sei ancora, tu, o ti sei persa? Quale strada posso usare per raggiungerti, ora che siamo nella quarantena del nostro orgoglio? E poi a dividerci c'è altro, inesprimibile, qualcosa che non voglio dire perché non ho le parole giuste e allora ci giro attorno e lo lascio in sospeso, sottotraccia d'inquietudine. Ogni tanto ti scrivo lettere, che ovviamente non posso spedirti.
Però scriverle mi aiuta a sentirti vicina, anche se alla fine sono sola e le mie parole sono solo storie che mi racconto e che mi fanno fare pace con me stessa, non con te.
In questi giorni sono tornata a casa, forse è anche questo che ha innescato le cose, oltre a tutto il resto. Sulla porta ci sono i nostri nomi scritti a mano, con una penna color oro. Entrando, sulla destra c'è la libreria con i tuoi libri superstiti e sulle mensole le etichette “esami dati”, “esami da dare”. 
Un listello del parquet si solleva, nascondiglio perfetto per dolcetti, paghette, lettere d'amore mai spedite. In fondo alla stanza i nostri due letti, a volte uniti, a volte separati: in qualsiasi momento una bracciata o un calcio avrebbero potuto essermi fatali. Attaccati al muro resistono imperturbabili i poster dei nostri miti, le nostre foto al mare, le tue cartoline da Parigi.
Il silenzio di questa stanza fa un rumore insopportabile.