Interno notte. Lei si rigira nel letto inquieta, in un bozzolo di lenzuola sfatte.
“Nel migliore dei mondi possibili,
adesso saremmo insieme”, pensa. “Ce la faremmo insieme, questa
maledetta quarantena”. Il televisore del vicino si è acceso,
arrivano le urla dai muri di filigrana, rumori di posate e colpi di
tosse. Saranno più o meno le due. Dovrebbe approfittare delle notti
senza turni, mascherine e camici, e recuperare il sonno, eppure non
riesce.
Quando non riesce a dormire le opzioni
sono tre: mettersi a leggere il libro abbandonato sul comodino da
troppo tempo, andare sul balcone a fumarsi una sigaretta, chiamare
lui.
La terza, ovviamente, è da escludere.
Conta poco l'emergenza che lampeggia dai telegiornali alle strade,
l'ansia che le stringe il cuore e lo spinge a pulsare ossessivo per
fuggire a quella morsa.
Lei sa già come andrà a finire, se
invierà quel messaggio, se le sue dita cederanno al ticchettio
rassicurante e ingenuo di un numero che sa a memoria, poco importa le
volte che lo ha cancellato dalla rubrica. Come andrà a finire? Si
scontrerà contro quel muro di indifferenza glaciale che certe
persone sanno tirar su da un giorno all'altro, senza preavviso, e poi
altrettanto rapidamente abbattere, all'occorrenza (la loro). Ci è
passata troppe volte da quella strada, per non riconoscere gli
ostacoli sul sentiero, i cartelli con le direzioni da seguire, i
segnali di allarme.
Il libro la guarda con fare mansueto e
accogliente dal comodino, come a dirle: “Io non serbo rancore, lo
sai. Pazienza se mi hai aperto tre mesi fa e poi lasciato qui con
questa fitta tra le pagine, solo, ripiegato su me stesso, senza uno
scopo. Si vede che avevi altro da fare, o non te la sentivi.
Io ti ho aspettato qui. Io ci sono
sempre. Possiamo riprendere da dove avevamo lasciato, o ricominciare
da capo.”
Lei sorride, tentenna, sospira. Il
fatto è che leggere è abbandonarsi, lasciarsi andare, fluire con le
parole di qualcun altro che a volte sono proprio le tue, quelle che
non sapevi dire; ma in questo momento lei non è pronta a lasciarsi
trasportare, il peso delle preoccupazioni la inchioda a terra,
immobile e impotente. La mente a volte è una gabbia da cui si esce
solo con l'aiuto del corpo, non del pensiero. “Dovrei smettere di
fumare, sono secoli che mi dico che dovrei smettere...Ma come faccio,
proprio adesso, ci manca anche questa...Facciamo che questa è
l'ultima, poi ci provo sul serio...”. Allunga il braccio per
raggiungere il pacchetto di sigarette che giace beffardo nel cassetto
ed estrae l'ultima di una serie di ultime sigarette della sua vita.
Poi si alza, a piedi nudi sul parquet, si guarda un po' intorno in
cerca dell'accendino a forma di mappamondo, un suo regalo,
misteriosamente sopravvissuto alla strage che a inizio quarantena
l'aveva portata a conservare solo oggetti forieri di gioia. Lei si
accende la sigaretta con la concentrazione di chi assapora una sua
“ultima volta”, inspira ad occhi chiusi, espira con la bocca
socchiusa in un soffio. Prende dal cassetto delle calze pesanti, le
indossa, apre la finestra e va sul terrazzo. Dieci minuti d'aria.
Il cielo povero di
stelle pesa sulla sua testa; primo giorno, quinto giorno,
quindicesimo...I giorni si confondono. Non si sa di preciso quanto
durerà o come tutto, dopo, riprenderà il suo posto.
Certo per qualcuno
sarà più difficile che per qualcun altro, ma non esiste una
bilancia a due piatti tarata sul dolore di chi soffre. Ognuno si
stringe al petto il suo, e un giorno forse lo lascerà andare, senza
però scordarlo mai del tutto. Anche il dolore, come ogni cosa, si
trasforma. E l'emergenza rivela zone d'ombra su cui lavorare, fa luce
sulle cose e sulle persone. Lei si stringe addosso il maglione,
simulando un abbraccio che non può ricevere, il fumo dei pensieri le
sta di nuovo annebbiando la mente. Ma all'improvviso, dalla finestra
di fronte, si accende una luce.
Gli occhi di lei
sbattono come quelli di un cerbiatto, il collo si allunga per
sbirciare meglio, e la sua mano accarezza l'aria per dissipare il
fumo.
Un ragazzo esce sul
balcone, forse anche lui in cerca dei suoi dieci minuti d'aria, anche
lui insonne, sveglio, in questa notte cupa. È alto, moro,
probabilmente l'avrà incrociato mille volte, come tutti quelli del
palazzo di fronte, e mille volte l'avrà salutato distrattamente, con
gli occhi bassi, oppure ignorato del tutto, in quella vita che a
volte percorriamo da sonnambuli.
Ora lo
scruta incuriosita e vorrebbe essere più vicina per vederlo meglio,
osservarlo, parlargli, persino. Lui si avvicina una sedia, si siede e
imbraccia la chitarra. Ecco chi è, il ragazzo che suona e non la
lascia mai riposare! Era un po' che non si sentiva, allora abita
ancora lì...
Il
plettro accarezza le corde fino a farle vibrare lievemente. La musica
arriva soffusa e ovattata, segno evidente e accorto
dell'amplificatore tenuto al minimo, eppure lei vorrebbe alzare il
volume al massimo, sentire quella musica fragorosa riempire il cielo.
Suoni lanciati in aria come stelle comete, da guardare incantati, col
riflesso della luce tremolante negli occhi accesi.
Lui
inizia a cantare, lei lo guarda rapita. Conosce quella canzone, ogni
parola e ogni accordo familiari eppure nuovi, inediti in quel
momento, vitali. Ed è allora che lei comincia a muovere i piedi, a
dondolare lentamente i fianchi, a sollevare le braccia verso il cielo
e a ondeggiare: incomincia ad abbandonarsi, a lasciarsi andare, a
fluire con la musica. Un richiamo viscerale che dà voce a bisogni
più sottili e profondi perché le parole possano tenere il passo. La
via d'uscita talvolta è attraverso il corpo. Il ritmo aumenta, il
suo cuore batte libero nel petto, non più costretto, e lei si lascia
trasportare, noncurante dello sguardo del ragazzo. Ballate
come se nessuno vi guardasse,
era così, giusto?
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