venerdì 13 dicembre 2019

Aspettando Natale


- A casa mia l'albero si fa l'otto dicembre, puntuali come un orologio svedese – disse lo Chef, così soprannominato perché, beh, di solito era lui a cucinare lì dentro. 

- Guarda che si dice svizzero, idiota! Puntuale come un orologio svizzero! - ribatté Nanni dalla branda in fondo.

- Ci sono stato in Svizzera, quando avevo quindici, sedici anni...Mio cugino si è trasferito lì per lavoro, non è male, se ti ci abitui...Certo, rispetto a qui... - si inserì Mario ricordando quel mese della sua vita passato nel Canton Ticino, a fingere di lavorare e a guardare schifezze in tv.

- Noi invece l'albero non l'abbiamo mai fatto - rispose il Duca con un sorriso sferzante e schioccando le labbra come faceva sempre.


Era il primo Natale della sua vita che lo Chef avrebbe passato lì dentro, e ogni mattina di dicembre si alzava col pensiero fisso dei suoi familiari a casa, un pensiero acuminato che gli si piantava nel petto e non lo abbandonava per tutto il giorno. Solo al momento del pranzo e della cena conosceva un po' di tregua, quando era impegnato nel mettere insieme qualche pietanza per sé e per quelli del suo giro. Per il resto del tempo parlava dei suoi e pensava a quando li avrebbe rivisti: i figli piccoli, la paziente moglie, descritti come la sacra famiglia innocente, un'icona evangelica a cui mostrare devozione, così come Mario faceva con i santini attaccati al muro con il nastro adesivo. Raramente Mario parlava della figlia ventenne che lo aspettava fuori, e se lo faceva le riservava epiteti ben poco rassicuranti, che coinvolgevano anche il suo fidanzato scansafatiche e il figlio che lei portava in grembo. Se però qualcuno degli altri, di solito Nanni, osava rivolgere anche solo una parola sboccata alla figlia e alla sua famigliola illegittima, ecco che Mario si trasformava, e diventava violento e protettivo nei confronti di Rosanna, riscoprendone persino il nome di battesimo.
Nanni non aveva famiglia fuori, solo qualche amico ologramma che gli appariva davanti in cerca di soldi o di droga, per poi sparire per mesi e anni. Ritornavano sempre, come fantasmi nelle case che hanno abitato da vivi, pronti a succhiare energia da chi sembra star meglio. Ogni volta che ne rivedeva uno, per un po' gli pareva irriconoscibile, sempre più segnato nel volto e nello spirito, sempre più consunto dal tempo e dal veleno, logoro e disperato per i tentativi smaniosi di sopravvivere. Nanni si guardava allo specchio e pensava di non essere affatto come loro, di aver avuto qualcosa in comune con quei ragazzi, forse, una volta, ma di essere poi riuscito a stare in piedi meglio degli altri, ad adattarsi con maggiore intelligenza a quella semi-vita tante volte così simile alla morte. Pochi sanno camminare in punta di piedi sul limbo senza scivolare, lui lo faceva come un equilibrista con la faccia disegnata di bianco e una stella nera sull'occhio. E rideva sempre, quando vedeva gli altri cadere; ridere gli serviva per restare in equilibro su quel filo sottile e per riempire quel vuoto nel petto che sentiva se solo si azzardava a pensare che quelli, un tempo, erano stati davvero suoi amici. Lo Chef, Nicola il suo vero nome, si era trovato coinvolto in qualcosa che non aveva mai capito fino in fondo, era lì vittima della sua ingenuità e persino del suo buon cuore. Mario si era fatto convincere da quella masnada di conterranei con cui aveva legato per sopperire al freddo e alla desolazione di una vita senza prospettive. Il Nanni, invece, sentiva in qualche modo di averla scelta, quella vita, o di averla avuta assegnata alla nascita, e di indossarla meglio degli altri.
Poi c'era il Duca. Il Duca si distingueva dagli altri per tre cose: il suo affettato accento milanese, costruito più di quanto gli altri potessero immaginare, la cura maniacale che aveva per i suoi capelli, ancora folti e fluenti nonostante avesse superato i quaranta, e i vestiti eccentrici che indossava, che stonavano incredibilmente in quel contesto grigio e sdrucito. Il Duca era entrato e uscito una decina di volte quell'anno, e si era ripromesso che non avrebbe passato il Natale lì. Per questo sfruttava ogni momento per parlare con l'avvocato, e quando non era possibile ciondolava avanti e indietro meditabondo, soppesando soluzioni e stratagemmi, oppure si abbandonava su una sedia, gambe incrociate, reggendosi la testa col pugno chiuso, ascoltando distrattamente i discorsi degli altri e intanto rimuginando sul suo futuro.


A Natale mancavano meno di due settimane, per le strade già cominciavi a sentirne l'aria frizzante la mattina, la nebbia bluastra nel tardo pomeriggio, come in un quadro di Chagall, il fermento della gente che brulicava sui marciapiedi, la sensazione esaltante di attesa.
C'erano così tante cose da preparare... Il cenone, le luci, l'albero, gli addobbi, i regali, il presepe,
i coltelli, il gas, il nastro adesivo, i biglietti per la Svizzera, lo specchio, l'avvocato.
I quattro si guardarono nervosi, chiedendosi se avrebbero fatto in tempo.





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