domenica 22 dicembre 2019

Natale a casa (parte 1)



Natale mi piace perché tutti tornano a casa.
So che devo fingere che questa promiscuità culturale mi piaccia, vivo in mezzo a gente colta, giovane e cosmopolita, ragazzi che fanno l' Erasmus e tornano profeti di una nuova religione, sprezzanti della vita passata, pronti a liberarsi dei vecchi vestiti, della vecchia lingua, dei vecchi amici e ad abbracciare nudi la vita nuova. Così, per non essere considerata eretica ed essere arsa nella piazza di qualche capitale europea, fingo che sia giusto, che lo scambio culturale sia l'unica via possibile, che restare nel luogo dove sei nato è necessariamente uguale a morire e viaggiare è la somma via verso la conoscenza. So che devo fingere, ma la realtà è che sogno di restare nella mia città, a casa mia, e di poter dormire nel mio letto, tutte le sere fino alla fine dei giorni. Mi va bene pure la nebbia, perché è la mia nebbia. La mia stanza, i miei libri, i miei film, la mia musica, le vie conosciute della città dove sono nata, che sono belle perché sono sempre le stesse eppure non smettono di stupirmi. L'altro giorno sono finita in un vicolo in cui non ero mai stata, e all'improvviso sembrava una città nuova.
E so che succederà ancora, perché non sono mai stata molto audace nell'esplorare, e se questo per tanti è un difetto, per me è la possibilità ancora intatta di sorprendersi con poco, di meravigliarsi, e in quegli attimi di meraviglia io ripongo la mia felicità, o almeno, l'unica felicità su cui puoi fare affidamento. Le altre, quella destinata a durare, o quella che è il frutto del tuo impegno o sacrificio, o quella che è ricompensa dopo una vita in attesa, beh, quelle non sono molto affidabili, non ci conterei troppo. Però restano gli attimi di meraviglia. Un incontro, una scoperta, una stella che si accende all'improvviso sul cielo buio e cieco, una porta che si apre e scopri che al di là c'è una stanza che pensavi non esistesse, o addirittura un intero mondo. Per la gente che conosco tutto questo sarebbe folle, ma per me è folle passare più tempo a parlare un'altra lingua piuttosto che la propria, fino a dimenticarsi parole in italiano, vederle scivolare dalla mente fino alla lingua e poi fermarsi lì, proprio in punta. Trovo folle allontanarsi dai propri amici e dalla propria famiglia, voltargli le spalle come se non fossero abbastanza importanti per restare e, infatti, andarsene. Per fare amicizia poi con persone che probabilmente non guarderesti neanche per sbaglio, se solo fossero del tuo stesso paese, e conoscessero le stesse strade e gli stessi modi di dire, ma che invece sono illuminate da una luce speciale perché straniere; la reputo quasi una forma di feticismo.
E poi, la follia estrema, rinunciare al nostro cibo. Di sicuro per loro la cosa più patetica di tutte, restare legati a un posto per il cibo, come se quello che mangiamo non ci nutrisse, rendendoci una cosa o un'altra, così come fa la cultura con lo spirito. Io sono felice dopo un piatto di tortelli come non potrò mai essere dopo un kebab, o un vassoio di sushi. E lo so perché l'ho provato, non certo per una sterile e ottusa forma di campanilismo. Non sopporto questa convinzione per cui la vita vera debba essere per forza lontana da casa.

- Allora dove sei? A che ora arrivi? Ci fai sapere?

Papà mi ha scritto un sms e lo vedo solo ora. È di tre ore fa, accidenti, e per scriverlo ci avrà messo altre tre ore, quindi presumibilmente è da questa mattina che aspetta una mia risposta. Sarò sempre in ritardo, non se ne esce.

- Tra mezz'ora sono in stazione... - gli scrivo aggrappandomi a una faccina che sorride, pure lei poco convinta.

Papà mi risponde secco con un “ok”.

Dopo circa un'ora il treno è ancora fermo nella stazione più ignota che l'uomo abbia mai concepito, roba che anche i gatti randagi se ne vanno disgustati perché l'isolamento li deprime. Di sicuro a me deprime, e infatti mi sento così sola che vorrei piangere. Mi succede spesso quando sono confinata in questi tristi luoghi di passaggio dalle luci troppo sciatte. Respiro aria fredda e secca, ma gli occhi si fanno umidi, e tutta questa gente attorno con me non condivide niente. Chi è in gruppo è su un'altra galassia, dove non ci sono inverni, o gelate, o stazioni abbandonate; chi invece è solo si consola immerso nello schermo che lo distrae dal mondo. Io non appartengo a nessuna di queste categorie, e interagire con loro sarebbe sempre uguale a disturbare, e di “scusate il disturbo” ne ho piene le scatole. Mi limito allora a guardare fuori dal finestrino, a sentirmi immobile e dimenticata da tutti come quei binari arrugginiti, e mi si ghiaccia un po' il cuore, e spero di arrivare presto alla prossima stazione, di arrivare a casa.

Scendo dal treno come da un incubo e vado a passo svelto e deciso verso l'uscita, con il conforto di sapere dov'è, e cosa c'è fuori. La piazza, la fontana, la statua di non so quale eroe della patria. Anche la stazione è cambiata, l'hanno rifatta da poco, ma le vie son sempre quelle, so che andando dritto andrei verso il centro, e da lì tutta la città si fa piccola nella mia mappa personale. Scruto l'aria a destra e a sinistra e scorgo il camioncino di papà, parcheggiato in lontananza. Lui mi aspetta nel suo cappotto verde un po' consunto, sempre lo stesso, abbracciato al volante con l'aria stanca di chi si sostiene a fatica. Mi guarda di sbieco mentre salgo e mi fa:

- Sbaglio o avevi detto mezz'ora?

Sono qui da cinque secondi e l'ho già deluso.

- Lo so, il treno ha avuto un guasto, si è fermato…

- Potevi avvisare…

Il camioncino parte e io mi sento così piccola e stupida che mi guardo allo specchio e ho treccine e moccio al naso. Papà mi passa il suo fazzoletto di stoffa stropicciato, forse pure mezzo usato; ha un odore di giacca vecchia e mi fa un po' schifo, ma è stato carino e disponibile come al solito, e allora mi dispiace, e mi soffio lo stesso il naso con un angolo del fazzoletto. Poi lui allarga la mano per riprenderselo, e se lo rimette in tasca. Non diciamo niente per tutto il viaggio. Lui guida e ogni tanto strabuzza gli occhi per restare sveglio. Io lo guardo di soppiatto, sperando che non se ne accorga, e scopro che la sua barba ha più peli bianchi, la pelle delle guance è più rossa e quasi si intravede qualche venuzza, così come sul naso. Attorno ai suoi occhi, così uguali ai miei, qualche ruga che non ricordavo, e delle occhiaie cupe a fare da chiaroscuro. Vorrei piangere, e infatti qualche lacrima si affretta negli occhi e spinge per uscire; guardo dall'altra parte, così non mi vede.

- Tutto bene? - mi chiede a un certo punto.

- Sì, bene…

- Bene…

E continuiamo a superare case e pianura in silenzio, risvegliati ogni tanto dal sobbalzo di un dosso.



(continua…)




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