mercoledì 11 dicembre 2019

L'ultimo giorno (parte 2)


- Oops, mi scusi io…

- Tonino!

Un attimo di distrazione, la solita abitudine di fissarsi le scarpe mentre camminava, e Tonino era inciampato su Emanuela Gioia, la ragazza che si era innamorata di lui a scuola, e che lui aveva pensato di sposare, mentre lei iniziava già ad uscire con Corrado Medici. E adesso se la trovava davanti, e sì, c’era pure lui, e gli sembrava che non fossero passati tre anni dall’ultima volta che l’aveva vista. Dopotutto l’aveva vista il giorno prima, a cena, mentre fantasticava infilzando annoiato le penne al sugo, e l’aveva anche intravista la settimana scorsa, tra un ricordo e un sorriso, e ripensava a lei ogni volta che sfogliava l’album delle persone che aveva perso, che erano scivolate via negli anni, volti che avevano promesso di restare per sempre e poi avevano perso le loro scommesse con il tempo. Il banco vince sempre.

- Ciao! Come stai?

Tonino non ebbe il tempo di risponderle, stordito appena da quei suoi occhi pieni di entusiasmo e avidi di notizie, e dai suoi capelli sempre amabilmente spettinati, che la madre gli rubò la scena e gli saltò sulla voce, tagliandogli la strada come sempre.

- Tonino sta benissimo, noi stiamo bene, siamo gente che non si fa mettere i piedi in testa dal primo che passa! Domani inizia a lavorare! – disse scuotendo la valigetta tutta incartata - Non si sta a perdere tempo sui libri così, sugli allori, mentre i genitori ti pagano tutto!

Tonino abbassò gli occhi e tornò a guardarsi la punta delle scarpe. Emanuela lo guardò con tenerezza, ma lui non lo vide. Senza contare che della tenerezza, a quel punto, avrebbe potuto anche farne a meno. Suscitare tenerezza era quasi diventata un’offesa, una condanna ad essere distante dalle persone; perché sì, loro gli volevano bene in qualche modo, provavano tenerezza per lui, ma questo negava ogni altro sentimento, la tenerezza collideva col resto. Non vai a Londra per l’estate con l’amico che ti fa tenerezza, non ti fidanzi col ragazzo che ti fa tenerezza, o se lo fai, è per ripiego, per solitudine, e non dura mai molto. Per lui, almeno, aveva sempre funzionato così.
Aveva rialzato lo sguardo in tempo solo per vedere gli occhi velati di ironia di Corrado che lo sbeffeggiavano. Si salutarono e si allontanarono.

- Che faccia tosta! Che faccia tosta fermarci mentre siamo impegnati coi nostri giri, abbiamo da fare, non lo sa che non tutti hanno tempo da perdere…Ma hai visto com’è ingrassata? Non s’è ancora sposata e già incinta! Ah ma tu non hai niente da invidiare a quello lì…Oddio sarà un bell’uomo, non dico di no, io lo sai che sono sempre onesta…Ma tu adesso non sei più un ragazzino, sei un uomo, domani inizi a lavorare; il tuo lavoro sarà la tua compagnia, un lavoro non ti tradisce, lui c’è sempre, ti sostiene nei momenti di difficoltà, ti aiuterà a distrarti, e lasciala perdere quella lì! È lei che c’ha rimesso…Un commercialista, poi, si prendeva, mica uno sfaticato senza arte né parte…

La madre continuò a parlare nel tragitto fino alla macchina, e poi fino a casa, e Tonino guardava nello specchietto retrovisore la valigetta ancora incartata appoggiata sul sedile posteriore, centrale e tronfia come su un trono, il simbolo infiocchettato della sua nuova vita, del suo futuro. E mentre un po’ d’ansia gli accarezzava lo stomaco, il cielo gli cadeva addosso improvvisamente grigio e freddo.


Erano passati trentacinque anni. Nodi di cravatte sempre un po’ stretti, fogli battuti a macchina o al computer, pranzi portati da casa, calcolatrice consunta, nuove paia di occhiali, camicie nuove, clienti nuovi, sempre la stessa valigetta marrone con la fibbia argento. Tempi morti, vuoti e pieni trascorsi come in un’onda, che adesso tornava al mare e lo lasciava steso sulla sabbia ancora umida, solo, con la sua vecchia valigetta.
Si era dedicato al lavoro come a una moglie, come alla donna che amava: puntuale e affidabile, sempre presente, dedito, appassionato, solo un paio di volte gli era capitato di desiderare altro, di vagare in inediti “altrove”, sospinto dalla noia più che dal senso di avventura. Poi però era sempre ritornato alla sua scrivania puntuale alle otto di mattina, e ai sogni di fuga o di gloria o di vite possibili concedeva al massimo la pausa pranzo. Non mangiava con i colleghi, non scambiava battute alla macchinetta del caffè, non indugiava in pause extra. Solitario, un po’ schivo ma sempre educato, il suo motto era: “solo lavoro”. Al di fuori dell’ufficio, pensava, c’era il tempo per le altre cose, ma quando si entrava lì la porta si chiudeva e il mondo restava lontano, lì dentro “solo lavoro”; ma il tempo poi si esauriva tutto lì dentro, con la porta chiusa al resto del mondo.
Sulla scrivania niente foto, niente di personale. Solo lavoro. Ma adesso che doveva andarsene sentiva che tutto era personale. Provava affezione persino per la spillatrice che non funzionava mai e che aveva lasciato in un angolo del cassetto, promettendosi di aggiustarla, perché buttare le cose non gli piaceva, quando era possibile ripararle. Si ricordava di quando l’aveva lasciata lì, il giorno prima o due anni prima. Tutto così sciocco e così inutile da fargli venire voglia di piangere.
Il giorno dopo la sua scrivania sarebbe stata assegnata a qualcun altro, un ragazzo con la valigetta nuova che gli aveva regalato la madre, o magari qualcuno che con lui non aveva niente a che fare, e che avrebbe comprato un computer nuovo e buttato via la spillatrice. Tutto il suo piccolo mondo d’improvviso non era più suo. Gli ci erano voluti mesi, forse persino qualche anno, per accomodarsi e lasciare la sua impronta sul divano, ma l’aveva fatto, e ogni volta che appendeva l’impermeabile gli sembrava di arrivare a casa. Adesso lo sfrattavano da casa sua, e con regolare preavviso e ricompensa, secondo i tempi e i modi stabiliti, per cui non aveva neppure diritto o ragione di lamentarsi. Un po’ si vergognò di quell’istinto di piangere, di quella nostalgia e di quell’amarezza, che covavano ardenti sotto ceneri che sembravano spente. Spense il computer con la lentezza obbligata dal software che si bloccava sempre, firmò le carte, ripose l’astuccio nella valigetta.

Finiva sempre di lavorare alle diciotto. Alle sei in punto, passo dopo passo si lasciò le scale alle spalle e varcò la porticina scorrevole smaltata di ottone. Fermo sul marciapiede, al limitare della carreggiata, si controllò il polso. Tic-tac, l’orologio segnò, per l’ultima volta, le sei.




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