Sapeva che lei finiva di lavorare alle diciotto, tornava a casa a piedi e di solito arrivava sotto al portone verso le diciotto e trenta. Da lì erano dieci minuti a piedi. Dieci minuti e l'avrebbe raggiunta, si sarebbe fermato sotto il suo appartamento, avrebbe fissato per un po' la luce accesa dalla finestra, incerto se continuare col piano, oppure lasciar perdere e tornare indietro, scomparire nel buio come un'ombra vigliacca. Lei dopotutto non l'avrebbe mai saputo. Però lui si sarebbe pentito, forse, di quel coraggio sequestrato dalla paura, e, una volta al sicuro, a casa, avrebbe fissato il soffitto in cerca di assoluzione. Il rimpianto, però, lo avrebbe stretto alla gola. Tante volte, in passato, avrebbe voluto fare cose che poi non aveva fatto: le aveva lasciate decantare per giorni nella sua mente, cullandole e nutrendole con cura materna, sognando per loro e per sé stesso una realizzazione che poi, puntualmente, non avveniva. Il tempo era passato, i progetti si erano arrugginiti e i sogni avevano preso polvere ed erano passati di moda, ritirarli fuori dai cassetti gli procurava soltanto vergogna. Quando si rendeva conto di tutto questo, di tutto il tempo perso e dei desideri infranti, si limitava a mandar giù il rimorso e ad alzare le spalle. Non è mai troppo tardi, finché un giorno, all'improvviso, ti accorgi che è proprio tardi, e non puoi farci più niente. Stavolta, però, era diverso. L'occasione era di quelle ghiotte e imprevedibili che capitano una volta ogni tanto anche alle persone normali, anche a quelli come lui. Lei era una donna di Modigliani dal collo lungo e gli occhi un po' persi nel vuoto; il suo aspetto diafano ed elegante, e quell'aria sperduta di chi è capitata lì per caso, tanto da essere quasi irreale e fuori posto, lo affascinavano fino al punto di ammaliarlo. Quando la vedeva camminare, i rumori della strada si facevano ovattati, e tutti i suoi sensi si espandevano per accogliere la presenza di lei e nutrirsene completamente. Sentiva amplificato il rumore dei suoi passi sulla strada battuta, i tacchi che lentamente toccavano il cemento, rintocchi ripetuti che scandivano il suo piacere. Lei indossava spesso vestiti e gonne larghe, e il lieve fruscio della stoffa che ondeggiava ai suoi passi lo incantava. Indossava un profumo che sapeva di biscotti alla vaniglia e latte caldo al miele. Portava orecchini grandi a forma di cerchio che luccicavano febbrilmente al sole e rallegravano anche le giornate più cupe. Lui assorbiva tutto questo, poi chiudeva gli occhi e immaginava di avvicinarsi, fermarla, aiutarla con le buste della spesa, chiederle l'ora: tutte azioni che sembravano semplici quando la mente le snocciolava, e poi si scontravano irrimediabilmente con la realtà che sovrasta e annienta. Non gli restava che osservarla, da lontano, sapendo di non poterla toccare, di non poterle parlare.
Si fermò a comprare un mazzo di rose rosse. Una signora impellicciata di fianco a lui stava scegliendo un bouquet per una ricorrenza triste, parlava con la fioraia e ogni tanto lanciava uno sguardo diffidente verso di lui, mentre il barboncino color caffellatte che portava al guinzaglio lo fissava senza sosta e gli abbaiava contro. – Cosa si scrive in questi casi? Condoglianze, soltanto? – chiese la signora impellicciata con un tocco di sdegno, come se alle noiose faccende da sbrigare ora si fosse aggiunta pure questa seccatura della morte, magari senza nemmeno dare il giusto preavviso. – Beh, signora, dipende. È in confidenza con queste persone? – disse la fioraia. – Guardi, non sono signora ma signorina, grazie a Dio non mi sono mai dovuta sposare per avere quello che mi serviva. E comunque, sa, son persone che conosco, ma così, come se ne conoscono tante... –. In un gesto infantile e protettivo, lui coprì il cartoncino su cui stava tentando di scrivere un messaggio per la sua ragazza misteriosa. Questo naturalmente non fece che accrescere l'interesse della signora impellicciata, la quale stese il collo inutilmente, e poi alzò gli occhi al cielo rinunciando. Il cagnolino si era intestardito a rifarsi i denti su una di quelle spugne che usano i fiorai, e impunito stava sporcando tutto attorno. La fioraia invece ripuliva il bancone da foglie e felci avanzate dall'ultima composizione, pacata e assorta nel suo rito consueto, prestando solo una minima, inevitabile parte della sua attenzione ai clienti e agli stralci di vita, amore e morte che portavano con sé. – Guardi, io scrivo condoglianze, tanto in questi casi non si sa mai cosa fare – alzò le spalle e poi si piegò di scatto sul bancone brandendo la sua stilografica. – Può scrivere: "Sentite condoglianze, un caro abbraccio". O anche: "Vi sono vicina in questo dolore", dipende –. La signora impellicciata si fermò, chiuse le labbra in una smorfia e soppesò per qualche istante quelle parole. – No, è meglio un semplice condoglianze, decisamente – . Lui avrebbe voluto inserirsi nella conversazione e chiedere: “E io cosa scrivo? Cosa si scrive a una ragazza con cui non hai mai parlato, una che vedi ogni giorno ma che non ti ha mai visto? Cosa si scrive per farsi notare e non passare per pazzo?” Forse era stata tutta una pessima idea, una di quelle che la notte sembrano luminose e rivoluzionarie abbastanza da farti addormentare con il sorriso, ma poi la mattina al risveglio, alla luce del sole, sbiadiscono. Stava per strappare il biglietto, non se ne sarebbe fatto niente, avrebbe continuato a guardarla da lontano e a sognare amori impossibili ed eterni. La signora impellicciata sbuffò vistosamente, tale era stata la fatica di scegliere i fiori e il messaggio. O forse sbuffava perché non ne poteva più di lui, della sua indecisione? Lui si affrettò a scrivere qualche parola qualunque, purché potesse uscire da quel negozio e liberarsi da tutta quella pressione. Il cagnolino ai suoi piedi aveva ricominciato ad abbaiargli contro e ora cercava di rifarsi i denti sull'orlo dei suoi pantaloni.
Fuori dal negozio, l'aria di fine ottobre era pungente e lo invase il sollievo di un'azione coraggiosa portata a termine, quel sollievo di quando l'ansia ti abbandona, lascia il corpo dal centro verso le estremità, e improvvisamente ti senti più leggero e provi quasi un senso di piacevole vertigine, una debolezza eccitante, e hai di nuovo fame. Era strano per lui sentire tutto questo, sentire il suo corpo, sentirsi vivo. Di fianco alla fioraia, si stagliava, provvidenziale, una pasticceria, così decise di fare una cosa che non faceva mai, un'altra di quelle che gli erano vietate, impossibili: entrò nella pasticceria e comprò un vassoio intero di pasticcini e biscotti. Appena fuori, si sedette sul muretto freddo e scartò con cura il pacchetto di carta. Sembravano piccole sculture geometriche, perfette e invitanti. Estrasse dal mucchio un bignè dorato ricoperto di glassa al cioccolato. Lo guardò, fece un sospiro di sollievo e poi lo portò alla bocca. Il cioccolato si sciolse sul palato, in un connubio di amaro e dolce che lui avrebbe voluto trattenere per sempre. Richiuse la carta con attenzione sui pasticcini, cercando di non schiacciarli, si alzò e si rimise in cammino.
Erano le diciotto e un quarto. Tra quindici minuti lei sarebbe arrivata a casa. Fermarla davanti al portone gli sembrava troppo simile a un agguato. Avrebbe aspettato che lei salisse nell'appartamento, e quella luce che aveva visto accendersi mille volte sarebbe stata il suo segnale. Le ventiquattro ore che gli erano state date si stavano già esaurendo. Se anche le cose fossero andate bene, avrebbe avuto solo poche ore da vivere con lei, e poi, a mezzanotte, si sarebbe dissolto e avrebbe dovuto dire addio di nuovo al suo corpo, ai suoi sensi, a tutte le possibilità di quella vita mai vissuta, o vissuta, anche prima, da fantasma. C'era anche un'altra possibilità. Gliel'aveva suggerita uno degli ultimi arrivati, uno che anche in vita era famoso per certe iniziative sinistre, che aveva il coraggio non solo di pensare, ma anche di realizzare. – Tanto prima o poi succederà comunque – gli aveva detto la notte prima, mentre lui si preparava a ritornare – Ok, è giovane, ma cosa cambia? Donne giovani muoiono continuamente. Gli incidenti capitano, sai? – . Un brivido lo aveva scosso, ascoltando quelle parole dette con tanta naturalezza. – Amico, la vita è uno schifo, l'hai visto anche tu, no? Cerca almeno di prendere qualcosa anche per te, finché puoi. Così non sareste costretti a separarvi – . Perché ora stava ripensando a quelle parole agghiaccianti? Il fatto che gli tornassero in mente, che non fosse riuscito a cancellarle nel momento stesso in cui le aveva ascoltate, lo turbò profondamente. Un passo dopo l'altro, era arrivato sotto casa sua. Le luci erano spente. C'era ancora un po' di tempo. Si sistemò la cravatta, il nodo malconcio gli ricordava che erano passati tre anni dall'ultima volta che ne aveva messa una. Si passò una mano tra i capelli, una, due, tre volte, dispiacendosi di non avere a portata di mano uno specchio, per una volta che poteva servirgli. Poi iniziò a ripassare mentalmente le parole da dire, senza accorgersene si ritrovò a bisbigliarle, mentre percorreva avanti e indietro il marciapiede sotto l'appartamento. Ripeteva anche le parole che avrebbe detto lei, nella migliore e nella peggiore delle ipotesi; aveva pensato anche a quelle, come se avesse potuto decidere e controllare tutto della sua fantasia casualmente incarnata in un corpo, reale solo nella sua mente, viva solo nei suoi sogni. Sistemò con tocchi lievi le rose, il nastro che le stringeva, il pugnale che le accompagnava.