domenica 9 febbraio 2020

Sessanta minuti



- Cosa fai, non mangi?

Davide mi aveva parlato, non era la voce nella mia testa, quella voce che a volte prendeva le sembianze di mia madre, a volte quelle della mia coscienza, a volte ancora la faccia di me a tredici anni, cioè solo tre anni prima. Ma in tre anni possono cambiare tante cose: tre anni prima portavo gli occhiali e ancora non avevo scoperto lo shampoo anti-crespo. A parte questo ero la solita ragazzina insicura che passava sempre inosservata. Una musica di sottofondo, un dettaglio sfocato, una comparsa in un film che paradossalmente avrei dovuto dirigere e scrivere io. Avrei potuto assegnarmi la parte principale, maledizione! Invece ero sempre quella senza battute. Incredibile che qualcuno, quel giorno, si fosse rivolto a me, alla me stessa sedicenne, con le occhiaie, gli occhi da triglia e la faccia di chi ha fissato il computer tutta la notte. Incredibile che fosse stato proprio lui a rivolgersi a me. Come diamine aveva fatto a vedermi? Ero così schiva che rasentavo i muri, così silenziosa che ogni volta, quando parlavo, la gente mi chiedeva di ripetere.

- Devi mangiare! Non lo sai che le ragazze troppo magre non sono molto attraenti... - disse ridacchiando, e la sua risatina si spanse nell'aria suscitando altre risate e producendo un'eco amplificata che mi rimbombava palpitante nella testa.

Dissolvenza.

- Ehi, Silvia, Silvia, svegliati! - mi urlava contro l'infermiera della scuola. Ma quale infermiera della scuola, non siamo mica in America. Qui nelle nostre scuole è già tanto se c'è la carta igienica.

- Portiamola in bagno – aggiunse un'altra infermiera.

Le bidelle mi trascinarono così nel bagno della scuola, che era sullo stesso piano, poco lontano dalla mensa dove si era appena consumato il misfatto che avrebbe nutrito le fameliche fauci dei miei compagni di scuola per molti anni a venire. Ero svenuta, che dio mi perdoni. Ma come cazzo parlo, come scrivo, come penso?! “Dio mi perdoni”?? Davvero pensavo 'ste cose a sedici anni? Certo, e avrei voluto morire, e andare all'inferno. Dovevo schiattare all'inferno nelle fiamme insieme a Paolo e Francesca, rosicando tutto il tempo, perché almeno loro avevano provato cosa significa amare qualcuno, ed essere amati. Io invece non avevo neanche avuto un sample di quell'amore, di quell'interesse, non avevo mai sentito il peso lieve di uno sguardo che si posa su di te incuriosito, o rapito. Tutti avevano sempre distolto lo sguardo.

- Sciacquiamole la faccia! - ordinò la capo infermiera, con il tono secco dell'esperienza, di chi ne aveva viste troppe per non sapere come destreggiarsi in quella situazione. La più giovane eseguiva impacciata, soffrendo sotto il peso del mio corpo appoggiato a lei.

Splash. Sciaff. Acqua fredda sulla fronte. Gocce gelate che mi freddano e mi svegliano nell'incubo da cui avevo tentato la fuga, svenendo. Apro gli occhi a soffietto, l'acqua mi sgocciola ovunque, sulle guance, dietro al collo, fino a scivolarmi serpeggiante nella schiena.

- Noo! - grido e mi divincolo – Non voglio, per favore no! – E richiudo gli occhi. Stavolta non svengo davvero, stavolta faccio solo finta, sto facendo finta e le bidelle non sanno che fare. Quella più giovane forse mi ha creduto, l'altra mi schiaffa addosso un'altra manata d'acqua, decisa a non arrendersi ai capricci di una ragazzina.

- E smettila, su!

- Ma fa male! - Grido, ancora incerta su dove mi trovo e sulle persone che sono con me, ma con l'immagine della mensa vivida in testa, ripulita da tutta quell'acqua.

- Deve mangiare, forse... - Propone la bidella più giovane, col tono dubbioso e insicuro di chi è già pronto a scusarsi per la cazzata detta. O a ritrattare, ché intendeva dire altro.

- Asciugale la fronte! - ordina la caposala.

- Dovremmo chiamare un medico? - rincara la neofita, rinfrancata dal suo commento precedente che non ha ricevuto particolari rimproveri.

- Ma va va...Un medico...Sai quante ne ho viste di ragazze come queste? - risponde seccata la caposala – Leggono i giornali con le attrici e le modelle, tutte magre, la prima dieta che vedono decidono di provarla, vanno avanti con una mela e una carota per settimane...E poi ecco, ecco cosa succede. Altro che medico. Un bel piatto di pasta asciutta, ecco cosa ci vuole.

Il cibo risolve sempre tutto. L'infermiera capo lo sapeva, lo pensava anche mia madre, ne erano convinte le mie zie e prozie e mia nonna. E non sto parlando di seguaci della sana alimentazione, del biologico o del veganesimo, né di adepte delle linee guida dell' oms. Sto parlando di spacciatrici di carboidrati semplici, donne efferate che mischiano le proteine, nonne in grembiule apparentemente innocue che quando ti chiedono: “Vuoi il pesce o la carne?”, poi aggiungono: “Va beh, facciamo tutt'e due”. “Vuoi le lasagne o la pasta alla carbonara?...Va beh, facciamo tutt'e due”. Sostenitrici del culto del metabolismo giovanile infallibile, che ti condannano a un futuro di obesità e malattie cardiovascolari. “Facciamo una fritturina!”, diceva mia nonna prima di buttare nell'olio bollente un silos di cibo. Lo sentivi sfrigolare e ne assaporavi il piacere sadico. Stava soffrendo, si rigirava disperato, ustionato, fino al punto di fumo, il punto di non ritorno, e sapevi che sarebbe stato buono, una volta assaggiato, ma poi si sarebbe vendicato. Avrebbe consumato la sua vendetta accanendosi sul tuo corpo lentamente, silenziosamente, mese dopo mese, anno dopo anno.

Il cibo risolve sempre tutto. Avrei ricominciato a mangiare, cinque pasti al giorno, avrei fatto pure la colazione. Dai, fai la brava. Fai la brava. Allineati. Adeguati. Alzati e cammina. Poco importa se ogni passo e ogni respiro ti costano un'energia che non hai. Fingi. Impara a fingere finché non credi alle tue stesse bugie, fino a trasformarle in verità, come hai fatto con le altre.
Non sei abbastanza bella, non sei abbastanza intelligente, non ce la puoi fare, non meriti di essere felice, nessuno potrà mai amarti. Hai creduto a tutto, hai ingoiato tutto il veleno e ora è tempo di una lavanda gastrica e non puoi fare che arrenderti, queste sono cose che non si raggiungono con lo sforzo e il controllo ma con l'abbandono. E allora mi abbandono. L'infermiera più giovane mi tiene il braccio mentre apro la bocca, la caposala infila il tubo e con lo sguardo fisso sentenzia: “Abbiamo solo sessanta minuti”.




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